Didascalismo e romanzi "a tesi" nella letteratura cattolica inglese tra XIX e XX secolo: gli errori da evitare nell'apologetica
Nella letteratura inglese tra XIX e XX secolo la tendenza dominante presso gli scrittori cattolici fu quella didascalica, producendo una narrativa a volte al limite del banale. In tale contesto era dunque difficile fuggire da una visione manichea della realtà, intesa come contrapposizione tra buoni e cattivi, ugualmente privi di sfumature psicologiche. I romanzi risultavano così, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, opere "a tesi", cioè chiaramente orientate verso un partito e un'idea attorno ai quali l'autore, un po' artificiosamente, imbastiva una trama col solo scopo di mostrarne la veridicità. Il pericolo era quello di ridurre tutto a una grande stereotipo, privo di mordente, che forse infiammava lo spirito di che leggeva ma che, allo stesso tempo, mancava di provocare al fondo la sua coscienza.
Del puro didascalismo furono vittima molti romanzieri desiderosi di tramettere verità storiche o religiose secondo una prospettiva netta, inequivocabile. Altri, invece, puntarono sull'esplicitare maggiormente il senso della trama, per rendere consapevole il lettore delle implicazioni ad essa sottese.
Le principali tecniche impiegate prevedevano, il più delle volte, l'ingresso in scena di un personaggio che fungesse da "esplicatore", oppure l'intervento diretto dello scrittore (quest'ultima opzione, in genere, fu minoritaria e quasi sempre realizzata maldestramente).
Se la tendenza didascalica fu diffusissima nell'Ottocento, nel Novecento, per fortuna, si ridusse di molto. Robert Hugh Benson, in questo, fu un'eccezione, come testimoniano in particolare i suoi romanzi storici. In essi, a prescindere dalla buona qualità complessiva, la voce dell'autore fa troppo spesso capolino tra le pagine. Anche quando a parlare è un personaggio, si sente l'eco dei pensieri di Benson, mentre la tecnica naif dell'osservatore esterno – che pare conoscere troppe cose – è male impiegata, risultando inverosimile. Pure il bestseller Il Padrone del mondo soffre, qua e là, di simili difetti.
G. K. Chesterton, all'opposto, fu un apologeta più fine, meno diretto e aggressivo: lo stile unico, giocato su un florilegio di paradossi, spiazza continuamente il lettore. I racconti di Padre Brown, per quanto saturi di dialoghi e lunghi commenti da parte del buffo investigatore, lo dimostrano ampiamente.
Nella prima parte del XX secolo, comunque, la quasi totalità dei romanzieri scelse piuttosto di puntare tutto sull'assicurarsi che la trama, e il suo messaggio, fossero chiari. Spesso chi forniva la chiave interpretativa degli eventi era il personaggio del sacerdote a cui il protagonista si rivolgeva per un aiuto. Simili esempi si trovano nei lavori di Maurice Baring, Daphne Adeane e Cat's Cradle su tutti, e in One Poor Scruple e Great Possessions di Mrs Wilfrid Ward. Variazioni sul tema soni i casi bensoniani di A Winnowing – in cui la protagonista si reca dalla priora di una comunità francese di suore per un consiglio – e de I necromanti, dove, con inversione ironica, il prete, che non crede nello spiritismo, si rifiuta di aiutare i personaggi principali nella loro battaglia contro il demonio.
Il caso inglese, al di là della curiosità storica, è una preziosa indicazione per cogliere limiti ed errori di certa letteratura cattolica e, di conseguenza, per individuare soluzioni più adeguate, anche per il presente (come saranno poi, sempre rimanendo in Inghilterra, quelle proposte, solo per citare i casi più noti, da Evelyn Waugh, da Graham Greene o da Muriel Spark). Piegare la narrativa alle esigenze apologetiche non è mai facile. Come visto, il rischio è quello di produrre opere noiose e prevedibili. L'unica soluzione è quella di liberare i propri personaggi, lasciare andare la penna e annotare scrupolosamente ciò che accade, senza intromissioni o forzature per far quadrare eventi e messaggi. Del resto, si sa, la narrativa migliore è quella che, più che offrire risposte preconfezionate, suscita domande.
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