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domenica 8 gennaio 2017

L'imputato - La vera eresia di oggi (di Marco Sermarini - da Vivere! ... e non vivacchiare - Novembre 2016)

L'articolo che segue è uscito sul numero di Novembre 2016 del mensile Vivere!  e non vivacchiare.
E' parte della rubrica che il nostro presidente cura da molti anni sul periodico, ed è ispirata all'omonimo libro di Chesterton.
Il mensile può essere visionato sul sito www.tipiloschi.com

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Sono arrivato, giusto o sbagliato che sia, dopo aver stirato il mio cervello fino a farlo squarciare, al vecchio credo secondo cui l'eresia è più minacciosa del peccato. Un errore è peggio di un crimine, perché un errore genera crimini.

G. K. Chesterton, The diabolist, in Daily News, 1907

Le eresie consistono sempre nell'indebita concentrazione su di una singola verità, o mezza verità.

G. K. Chesterton, L'Uomo Comune

La verità intera è in genere alleata della virtù, una mezza verità è sempre alleata di un vizio.

G. K. Chesterton, Illustrated London News, 11/06/1910

Oggi la parola eresia è decisamente fuori moda. Viviamo in un'epoca che ha fatto del libero pensiero e del relativismo morale, filosofico e religioso la sua lingua corrente, anche in ambiti dove non lo si immagina. Non c'è più nulla di oggettivo, quindi nulla di ortodosso, ergo nessuna eresia. Eppure, dice il nostro amico Chesterton, l'uomo è un creatore di dogmi, quando è in forma spacca capelli in quattro, distingue, cerca la Verità.
Il nostro Chesterton è molto chiaro sull'argomento dell'eresia: è peggio di un peccato perché genera altri peccati. Teme più l'eresia del peccato. A ben guardare è una posizione esatta ed intelligente, si capisce l'enfasi posta dalla Chiesa nel passato su questo punto. L'eresia, dice Chesterton, consiste sempre nel concentrarsi ingiustamente su di una singola verità o su di una parte di essa. Facciamo qualche esempio. Risparmiare non è sbagliato; l'errore sta nell'accumulare, perché l'accumulo è frutto di un vizio, l'avarizia. Nessuno di noi dirà di essere avaro, perché sosterrà di non avere abbastanza soldi per esserlo, al massimo ammetterà di essere parsimonioso, il che può essere giusto, ma anche un povero può essere avaro se il suo cuore batte per il denaro, se per lui il denaro è tutto. Per questo Gesù diceva che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel Regno dei Cieli. Non ce l'aveva con i ricchi, Gesù non sopportava (giustamente, che ne dite?) qualcosa che si ponesse al posto di Dio (cioè al Suo). Egli ci dice infatti nel Vangelo che Dio veste i gigli del campo, quindi provvederà anche a noi, e allora chi non crede a ciò e non agisce di conseguenza fa parte della "gente di poca fede" e dei "pagani". 
La questione è tutta lì, l'eresia è questo. La verità intera è alleata della virtù, crea quindi bene quando è cercata e praticata; questa mezza verità dell'accumulo è alleata - vedete? - del vizio dell'avarizia. È solo un esempio.
Una delle peggiori eresie di oggi è allora il borghesismo. Non mi riferisco alla categoria socioeconomica di coloro che vivono di stipendio o di introiti da lavoro autonomo medio - alti (che mi sembra non abbia più forza rappresentativa o illustrativa della realtà, in un mondo occidentale fatto in prevalenza di impiegati ed ai cui confini premono milioni di persone che vogliono occupare i posti non voluti dagli europei). Intendo quell'atteggiamento che ci fa concepire la vita come una lunga linea ferroviaria, una strada lunga e diritta senza incertezze o bivi, sofferenze, sforzi, tutto "bello". In fondo la stragrande maggioranza delle persone che cosa si prefigge se non un orizzonte il meno scosceso e incerto possibile, e per esso è disposta a barattare la libertà ed i suoi frutti? Non c'è gusto nel soffrire, siamo d'accordo, ma rifiutare la sofferenza e il sacrificio nei quali nasciamo e ci troviamo a vivere significa negare una parte consistente della vita vera, quindi mentire. Se questo è l'orizzonte, le conseguenze pratiche sono uniformi e costanti a qualunque latitudine e longitudine: evitare o contenere al massimo la sofferenza, il sacrificio, accettare questi accidenti nella misura in cui ci consentono di ambire e contenderci il posto al sole (un matrimonio - parola grossa! - o un'unione "precisi", studi che possano aprirci un avvenire di tal fatta, un lavoro adatto a queste aspettative, commisurato alla maggiore o minor attitudine di ciascuno a sacrificare questo o quello di una vita che possa vagamente somigliare a quella umana - tempo libero, famiglia, desideri, amicizie - per raggiungere certe ambizioni...).
Ricordo che una volta ero con un collega e amico e incontrammo un comune conoscente, ricco e abbastanza famoso. Questo collega si premurò di raccontare all'altro le sue ultime prospettive professionali: socio in un nuovo studio con una rilevante quota, un grande studio, soldi, carriera... L'altro gli fece: sono contento per te, avrai successo. Mi venne una tristezza... Cos'è il successo? Gli applausi, i "bravo", il "rispetto" e le adulazioni più o meno finte di chi ti teme o spera da te una briciola di potere, soldi, lussuria.
Questo è il borghesismo. Cosa c'è di male, dov'è l'eresia, si dirà, nel cercare un buon lavoro, una specie di famiglia, un assetto che mi consenta di avere soddisfazioni o almeno di stare abbastanza tranquillo e di godermi la vita? Semplice, ci fidiamo più della Fiat, del MIT di Boston o del Balliol College di Oxford o della Repubblica Italiana, che di Nostro Signore. Nostro Signore non è uno che si fa confinare in un'area residua della nostra vita: o pervade tutto, oppure non ne si afferra neppure lontanamente il senso e ovviamente il Suo spazio lo prendono cose caduche che sono state fatte da Lui ma alle quali noi diamo più importanza (ma poi? cosa ci rimane?).
Il problema è che noi veniamo su con questi limitatissimi orizzonti da schiavi. Sì, diventare un grande manager, o un famoso medico o avvocato, o anche un mediocre impiegato a cui non manca nulla è spesso l'unico scenario che vediamo e concepiamo. La nostra civiltà è stata costruita invece da tanti piccoli uomini liberi disposti anche a morire purché si affermasse la Verità di Cristo in ogni centimetro della vita (arte, musica, cultura, architettura, ordine, società, lavoro, creatività, politica...).
La conseguenza di questa eresia è che qualunque cosa dica Gesù Cristo, essa è tenuta in considerazione nella misura e nell'eventualità in cui si tratti di qualcosa che esuli dalle aree del benessere, dell'assenza di sofferenza, di sacrificio, di incertezza. Hanno iniziato dicendoci (con il plauso anche di molti chierici) che lo spirituale non deve avere a che fare con il materiale. Hanno continuato facendoci credere che religione pura e santa è quella che non si immischia delle scelte delle persone, che devono essere libere. Che più "spirituale" è, più vera sarà, la nostra religione. Capite allora con quale facilità questa eresia ha occupato lo spazio materiale lasciato libero, dove invece passa quasi tutta la nostra esistenza quotidiana. Con il risultato che adoriamo vitelli d'oro tutti diversi e tutti uguali, con l'illusione di tenere tutte le cose a posto, Dio, lavoro, famiglia...
Non è molto diversa dall'eresia ariana che preferì al Gesù vero Dio e vero Uomo una specie di superuomo che non aveva niente di Dio e che quindi non serviva a molto, ma teneva tutto a posto. Come l'arianesimo, essa detiene oggi quanto più spazio e influenza possibili. Siamo tutti pressoché obbligati ad esprimerci nella stessa sua lingua, a confrontarci con le stesse unità di misura, con gli stessi riferimenti espressivi e comunicativi, tanto ne siamo influenzati (il che forse è la cosa peggiore, perché con l'espressione e la comunicazione rendiamo ed esterniamo ciò che è dentro di noi, e se abbiamo il vocabolario sbagliato, anche i pensieri pian piano diventano sbagliate. Gli antichi, giustamente, credevano che la grammatica fosse la struttura dell'esperienza). Tanto che chi sembra eretico è l'ortodosso, un po' proprio come ai tempi di Sant'Atanasio, ultimo baluardo della vera fede di fronte alla canea ariana urlante, condannato ed esiliato numerose volte.
Ci vuole la grande libertà di essere spericolatamente ortodossi, c'è molto di più da godere.

Marco Sermarini

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