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venerdì 13 dicembre 2013

Una recensione di Marco Testi de L'età vittoriana nella letteratura

LEGGERE È PENSARE

Grazie, mister Chesterton

Sorprendente e illuminante il suo "L'età vittoriana nella letteratura"

Marco Testi

 


"Se noi continueremo a trattare il popolo com'è nell'uso capitalista, se noi continueremo a servirci degli armamenti esteri com'è nell'uso capitalista, il nostro comportamento ricadrà pesantemente sui vivi. Il disonore non resterà ai morti".

Non sono le parole di un acceso - e oggi inattuale - comunista, o di un anarchico barricadiero. È Chesterton, uno mica tanto tenero con le soluzioni palingenetiche e "salvifiche" prospettate - e realizzate nei modi che sappiamo - ai suoi tempi, uno che guardava all'uomo comune e alla possibilità di tirargli fuori profondità e bellezza.

Il capitalismo che aveva di fronte era quello dell'età vittoriana (1837-1901), il lungo periodo contrassegnato da una regina salita al trono a diciotto anni e che ha visto lo sviluppo dell'industria e della potenza britannica nel mondo. Era il capitalismo frustato da Dickens, quello dello sfruttamento intensivo dei bambini e delle donne incinte a maggior gloria della Regina e delle tasche di gente senza moltissimi scrupoli.

Un'età su cui, proprio attraverso le parole del creatore di Padre Brown, oggi è possibile gettare un utilissimo fascio di luce grazie all'iniziativa di una giovane casa editrice, che propone un testo fondamentale per capire la recente storia non solo inglese, "L'età vittoriana nella letteratura" (Fuorilinea, 213 pagine). Fu scritta da Chesterton nel 1913, vale a dire prima della definitiva conversione al cattolicesimo, ma dopo il capolavoro "L'uomo che fu giovedì", che è già un romanzo cattolico nel senso più profondo del termine.

Proporre al lettore un volume di saggistica potrebbe essere un azzardo (se dovessimo seguire i diktat delle mode letterarie), se non che ci sono di mezzo il nome di uno dei più grandi scrittori europei del Novecento (anche se molti fanno finta di non saperlo, o addirittura di non conoscerlo), dotato di uno humor che renderebbe digeribile anche un mattone, un periodo fondamentale per capire come siamo arrivati al nostro oggi, e una serie di chicche che lo rendono apprezzabile da un vasto pubblico di lettori: per esempio ci informa, anche grazie all'apparato delle note a pie' di pagina, che la per noi oscura scrittrice May Sinclair, citata qui da Chesterton, è probabilmente colei che ha inventato l'espressione "stream of consciousness", vale a dire "flusso di coscienza", ripresa poi per lo studio delle opere di Joyce o della Woolf; che uno dei sostenitori del darwinismo in letteratura è stato il sacerdote della Chiesa d'Inghilterra Charles Kingsley; che il termine, usatissimo in letteratura e in filosofia, "spirito del tempo" è attribuito all'inventiva di Matthews Arnold (se è per questo, Arnold ha coniato anche il fortunato termine "filisteismo"); ma soprattutto ci vediamo sfilare davanti una galleria di personaggi celebri, da noi investiti da un'aura posticcia e postuma, mentre Chesterton ce ne parla avendoli davanti. La sua antipatia per Wilde non gli impedisce, dopo la sua caduta, di vedere nella "Ballata del carcere di Reading" "un grido per una giustizia e una fratellanza comuni molto più profondo, più democratico".

Chesterton ci aiuta capire il senso e la portata storica di un periodo non damolto conclusosi, con una capacità introspettiva che ha del profetico per noi che lo leggiamo cento anni dopo: parlando della ricerca scientifica, nota che essa iniziò "con la vaccinazione, si estese più tardi con le prime autorizzazioni alla vivisezione, e ha trovato una specie di cappello da giullare che gli si adattasse, anzi una corona di crimine e follia, in quella cosa chiamata Eugenetica".

Ce n'è per tutti, da Wilde a Shaw, da Henri James ai socialisti e alla società Fabiana, dai Preraffaelliti a Stevenson, nel bene e nel male, in un viaggio alle radici di alcuni problemi d'oggi come il relativismo e il materialismo.

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