Anche se precaria al massimo grado sono un’insegnante. E dunque sono andata con curiosità a spulciare i titoli dei temi usciti per la maturità; e ho pensato ai ragazzi che disordinatamente ho incrociato nel corso delle mie supplenze e adesso sono impegnati nell’esame.
Per questo non sono neutrale, e la mia analisi sarà sicuramente viziata da quel crescente fastidio che è via via lievitato leggendo nel dettaglio le tracce dei temi proposti. Mi permetto una sintesi, non politicamente corretta, di quel che ho trovato: il vuoto e il labirinto, questo è come si presenta il tempo e il mondo; poi c’è la crisi e tu – mio caro giovane – non troverai un lavoro (però segui la stella di Steve Jobs!); il luminoso mondo della scienza ti offre possibilità di costruire un futuro migliore, sii responsabile; la storia ti insegna che l’uomo è cattivo, come memento l’Olocausto. E dunque – mio caro giovane – commenta, liberamente, questa frase: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita».
So tutto in fatto di argomentazioni a favore e contro la tesi proposta; so che si può dare un titolo provocatorio per vedere se un ragazzo è maturo abbastanza da saper argomentare in modo critico, magari confutando la tesi di partenza con giuste citazioni e dati desunti da studi accreditati. Ma il punto non sono i ragazzi; per quel che riguarda loro mi auguro che abbiano saputo argomentare, e anche rispondere per le rime.
Quel che mi lascia un istintivo senso di rivolta è vedere che noi siamo imbalsamati e rimestiamo sempre nello stesso brodo. Siamo rimasti a quel cupo cimitero che si è aperto a inizio ’900: il cuore di tenebra, la terra desolata, il porto sepolto, l’uomo senza qualità, i personaggi in cerca d’autore. Quando io feci la maturità mi capitò un tema su Don Abbondio che se ne stava seduto sul suo seggiolone e mi si chiedeva di commentare quel personaggio manzoniano. Ora, passati 16 anni da allora, mi sento di aggiungere qualcosa al commento strettamente letterario che feci.
Noi insegnanti non ce ne dobbiamo stare comodamente seduti sul nostro seggiolone quando di fronte a noi si presentano dei giovani che, magari come Renzo e Lucia, hanno un’aspettativa buona e luminosa sulla vita. Soprattutto se, come il più delle volte, quest’aspettativa buona non si mostra in forma cosciente neppure a loro; è qui che si fa interessante il nostro mestiere.
Gl’insegneremo Montale e affonderemo il coltello nel male di vivere. Certo, potremo leggere brani come quello proposto nella prima traccia: «Ammazzare il tempo non si può senza riempirlo di occupazioni che colmino quel vuoto. E poiché pochi sono gli uomini capaci di guardare con fermo ciglio in quel vuoto, ecco la necessità sociale di fare qualcosa, anche se questo qualcosa serve appena ad anestetizzare la vaga apprensione che quel vuoto si ripresenti in noi». Ma cos’è il vuoto di cui parla e che l’uomo dovrebbe saper guardare? Il tuo presente – guardato con fermo ciglio - è un vuoto? Apriamoci a queste domande con i ragazzi, non affrettiamoci a etichettarle. Perché quello stesso poeta che ha saputo così bene documentare il vuoto dandogli il volto del rivo strozzato o della carrucola che cigola nel pozzo, non si è escluso – a tratti – il varco della meraviglia.
Questo pezzo di suolo non erbato
s’è spaccato perché nascesse una margherita.
(da Mediterraneo)
In questo pezzo di terra desolato è fiorita una margherita. Leggere Montale sicuramente non è ammazzare il tempo. A patto che lo si legga, e non ci si limiti a commentarlo seguendo griglie o linee critiche predeterminate.
Non c’è dubbio sulla nostra bravura a lamentarci di questo pezzo di suolo che è il tempo presente, e non c’è prova migliore dei testi proposti nelle tracce per il tema di ambito artistico-letterario e per quello di ambito socio-economico. Nel primo leggiamo Borges che afferma: «Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l’architettura mancava di ogni fine. … scale rovesciate morivano senza giungere ad alcun luogo, dopo due o tre giri, nelle tenebre superiori delle cupole»; nel secondo irrompe la lapidaria asetticità delle statistiche: «La diminuzione dei giovani occupati, pari a 1 milione 54 mila unità, ha riguardato sia gli uomini che le donne, più o meno nella stessa proporzione» (Mario Sensini, Corriere della Sera) e «in Italia l’11,2% dei giovani di 15-24 anni, e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, non è interessato né a lavorare né a studiare, mentre la media europea è pari rispettivamente al 3,4% e all’8,5%» (Rapporto Censis).
L’unica margherita che si scorge all’orizzonte è la Hack, citata nella traccia di ambito tecnico-scientifico. L’unico spiraglio di costruzione positiva lo si demanda alla scienza, e per il futuro. Ecco alcune citazioni da questa traccia d’esame: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas), «La scienza può aiutarci a costruire un futuro desiderabile» (Pietro Greco), «Ecco questa credo sia la regola e l’etica dello scienziato: la ricerca scientifica deve accrescere nel mondo la proporzione del bene. Le applicazioni della scienza devono portare progresso e non regresso, vantaggio e non svantaggio» (Margherita Hack).
Progresso è una parola che, grazie al signor Chesterton, ho messo nel cestino. In generale la nostra linea di pensiero è quella di dire che se oggi attorno a noi vediamo un cimitero, dobbiamo impegnarci perché il futuro – almeno – sia desiderabile. Chesterton, invece, contestò il cimitero, perché non gli andava giù che il presente fosse solo disprezzabile. E notò che in mezzo a quel suolo arido e senza erba c’era già una margherita. Un fiore così piccolo e comune da non essere visto. Il superuomo e l’inetto forse erano morti nelle teorie nichiliste, ma per strada l’uomo comune era vivo (e ignorava le teorie nichiliste). Perciò in mezzo a quel cimitero il signor Gilbert Chesterton pubblicò – è noto, ma così spesso taciuto – un romanzo intitolato Uomovivo. Il protagonista è proprio uno di quei ragazzi a cui a scuola era stato insegnato a pensare quello che la traccia del tema di ordine generale cita: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Da adulto il ragazzo, di nome Innocent Smith, torna da quell’insegnante, che in aula aveva proclamato ad alta voce che la vita è una pozza di fango (un sottile strato d’acqua sporca), e gli punta una pistola alla tempia. Per vedere fino a che punto il pessimista è pessimista. Il professore dovrebbe ringraziare che qualcuno lo liberi dallo schifo che è vita. Ma il condizionale è proprio il tempo grammaticale corretto per i pessimisti teorici. Quando si passa al tempo indicativo le cose cambiano: il professore, fuggendo dalla minaccia della pistola, si rifugia sul tetto della scuola – sotto di lui il vuoto (quello vero). A quel punto Innocent chiede seriamente al suo professore: «E a voi piace stare appeso al nulla?».
Quel che segue non lo cito, ma è una delle più belle descrizioni dell’alba che siano mai state scritte. Alla teoria si oppone l’evidenza dell’essere. E l’essere è sotto in nostri occhi molto più del nulla, solo che ci si deve rimboccare le maniche per continuare a vederlo giorno dopo giorno. Chesterton ebbe modo di scrivere in Ortodossia che non c’è compito più bello di quello di Robinson Crusoe, che tenta di salvare ogni suo piccolo oggetto dal naufragio. L’alba è quell’evento quotidiano che ci salva dal naufragio, perché visivamente e quotidianamente strappa le cose ad una ad una dal buio. Già ora noi non siamo il nulla del buio. In mezzo al solito brodo della pozza di fango o del futuro migliore quella descrizione è una traccia interessante da svolgere in classe.
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