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lunedì 19 settembre 2011

Luca Negri recensisce il Dickens di Chesterton su L'Occidentale - "Di Dickens non si può dire che fosse più interessato all'Umanità che all’uomo"


Forse è vero che i critici letterari sotto sotto non sono altro che letterati mancati o frustrati. Sarà dunque probabile che i migliori fra di loro siano stati i grandi romanzieri e i sommi poeti. Ad esempio, T S. Eliot, autore di eccelse poesie e di preziosi studi critici, sosteneva che “non esiste miglior critico dickensiano del signor Chesterton”. Infatti Gilbert Keith Chesterton, poeta, romanziere, saggista e giornalista, scrisse, a partire dal 1911, anche le prefazioni a tutte le opere di Charles Dickens pubblicate in edizione economica per il grande pubblico britannico. E non è del solo Eliot il parere che la migliore introduzione al mondo dickensiano la si debba proprio a Chesterton.
L’inventore di Padre Brown offrì quelle annotazioni “come dei biscotti da consumare assieme al porto invecchiato della grande commedia inglese”. Allora si tratta di alta pasticceria, giacché Chesterton aveva il dono di incantare il lettore qualsiasi cosa scrivesse, forse anche con le liste della spesa.
Fortunatamente le prefazioni dickensiane sono ora raccolte in volume, Una gioia antica e nuova, edito da Marietti 1820, irrinunciabile per tutti gli appassionati di letteratura britannica. Oltre il fulgore del talento dickensiano e la sua grandezza d’animo si ha modo di incontrare il Dickens politico, molto più complesso e difficilmente classificabile di quanto si possa pensare. È noto che concentrasse il suo lavoro nella descrizione dei poveri, ma non era certo assimilabile al rozzo realismo socialista che si sarebbe imposto nel secolo successivo. Secondo Chesterton “studiava i poveri individualmente, mentre tutta la letteratura moderna tende a trattarli in gruppo”, a farne un’astrazione. Era insomma interessato all’uomo e non all’Umanità. Appare evidente in “Oliver Twist” come la sua battaglia non fosse “quella del bottegaio contro il feudatario, o del nonconformista contro l’uomo di chiesa, del liberoscambista contro il protezionista, o del liberale contro il conservatore”. Era “la rivolta eterna: la rivolta del debole contro il forte”; Dickens attaccava quindi “l’errore di fondo”, possiamo dire che per mezzo dei cattivi dei suoi romanzi faceva indagini sul peccato originale, sebbene non fosse credente.
La sua “satira che mirava sempre all’attacco e non faceva prigionieri” era una pietosa arma morale, proprio come la sferzante allegria dei suoi poveri. A proposito, ci ricorda Chesterton che “per il povero in Inghilterra scherzare è vitale, come il grano” e che “una buona battuta è l’ultima cosa sacra”.
Leggendo “Tempi difficili” si scopre che il suo autore, pur amando tutti gli uomini, “rifiutava di amare tutte le opinioni”; in primo luogo quelle degli utilitaristi, liberisti o socialisti che fossero. Anche nelle questioni economiche il problema lo vedeva a monte, nella “spregevole concezione moderna di lasciare ambigua la morale”.
È vero che nel compilare il suo diario di viaggio negli Stati Uniti, “America”, pecca di paternalismo nei confronti della vecchia colonia, ma non risparmia osservazioni profetiche, vicine a quelle di Tocqueville nel timore che “gli ideali repubblicani si alleassero a un’anarchia sociale”, nella consapevolezza che “il popolo può trasformarsi nel peggiore dei tiranni”. Dickens era sinceramente democratico, ma abbastanza aggredito dalla realtà da riuscire a comprendere “che era in arrivo il momento in cui il popolo avrebbe pregato lo Stato di salvarlo dalla libertà”.
L’argomento centrale delle sue narrazioni rimane comunque la speranza, la virtù teologale da lui non riconosciuta confessionalmente. Nella prefazione a “Grandi speranze”, opera della tarda maturità, Chesterton nota che in ogni suo romanzo “l’aspettativa è su tutto: sulla prossima persona che parlerà, sul prossimo comignolo da cui uscirà fumo, sul prossimo evento, sulla prossima estasi”.

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