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giovedì 21 aprile 2011

Un interessante articolo sul distributismo di Matteo Donadoni.


INDUSTRIA: LA SOLUZIONE DISTRIBUTISTA
- PARTE II -
(DIVAGAZIONI FRA ARISTOTELE E BELLOC)
C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare, crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà: molti ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità (l’economia), mentre non è identica a quella citata e neppure molto diversa.
 Il vero è che delle due una è per natura, l’altra non è per natura e deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica.
(Aristotele, Politica, I 9 1257b)
La prima attestazione del termine oikonomia è l’Apologia di Socrate (36b) in cui, nell’elenco dei temi trascurati dal filosofo, compare affiancato all’affarismo (chrematismos). Ne viene così evidenziata l’affinità generale, ma allo stesso tempo la differenza sostanziale. Occorre, infatti, fare un passo indietro per evidenziare cosa intendessero gli antichi con questi concetti e valutare se non sia il caso di impostare una riflessione seria sull’economia, recuperandone il significato filosofico originario. 
La Crematistica è l’arte dell’acquisizione – da τὰ χρήματα “le sostanze” –, sul piano teorico Aristotele divide una crematistica naturale ed una innaturale, delle quali solo la prima rientra nella sfera dell’economia, mentre la seconda sarebbe l’incremento illimitato e fine a se stesso delle ricchezze, tuttavia è da notare che questa è una posizione di minoranza già nel mondo antico (Pol., 1253b 12-14). Possiamo riscontrare le motivazioni di tale distinzione poche righe più avanti in cui Aristotele parla “a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte dell’amministrazione della casa (oikonomia), è secondo natura, essa bada ai mezzi di sostentamento, e non è, come l’altra, senza limiti, ma ha dei confini precisi” (Pol., I 9 1258a). Se ovviamente non si può parlare di un Aristotele distributista, si può immaginare un distributismo aristotelico.
A differenza della sana economia teorizzata dai filosofi antichi, la moderna economia si basa su due assunti principali
, entrambi sbagliati. E cioè: sul postulato in un certo senso riduzionista che l’economia sia una scienza fisica e non umana, e sul conseguente corollario che pertanto non abbia nulla a che vedere con l’etica. Perciò a seguito della rivoluzione industriale l’economia si è gradualmente contrapposta alla giustizia, soprattutto alla giustizia distributiva. Ora, “la giustizia è elemento dello stato; infatti il diritto è il principio ordinatore della comunità statale e la giustizia è determinazione di ciò che è giusto”(Pol., I 2 1253a), dunque, lo Stato distributista crede che la giustizia non sia solamente un problema di ordine morale, o astrattamente svincolato dall’agire quotidiano, ma anche problema pratico e dunque politico ed economico. 
Il distributismo cerca di costruire una società basata sulla proprietà di uomini liberi e dotati di tutti gli strumenti adatti per difendersi dallo statalismo burocrate e dal capitalismo monopolista. Per far ciò, però, una società distributista richiede uno Stato amministrativamente più snello e fiscalmente non troppo invasivo, i cui proprietà privata e poteri siano maggiormente distribuiti su tutti i livelli della società. 
Per quanto riguarda la proprietà e il potere esistono due soli possibili atteggiamenti: la concentrazione e la distribuzione. E come direbbe Hilaire Belloc la prima porta al servilismo e allo Stato Servile, in cui la maggior parte della gente è privata della libertà di scegliersi il proprio mestiere ed è costretta a lavorare per gli altri, la seconda, invece, conduce alla libertà.
La risposta distributista è una diffusa proprietà dei mezzi di produzione, che equivale a dire piccola proprietà privata di terra, attrezzature ed equipaggiamenti che consentano con il lavoro la trasformazione delle materie prime in beni e servizi. Lo strumento adatto a tale diffusione può essere rappresentato ad esempio dalle cooperative nelle quali cui i lavoratori sono anche i proprietari del capitale, che può essere reinvestito in varie attività in modo tentacolare. Le cooperative, infatti, alleviano le tensioni date dalla separazione fra proprietà e lavoro con un’azione diretta alla base: cioè eliminando tale divisione.
La forma della cooperativa distributista offre molti vantaggi, favorisce la famiglia mettendo in pratica quella sussidiarietà cara alla dottrina sociale della chiesa, infatti, se fra i principi del distributismo c’è la sussidiarietà è la famiglia ad essere al centro di ogni meccanismo economico ed in essa deve risiedere il grado maggiore di decisionalità e potere, mentre, di conseguenza, gli organismi superiori si giustificano solamente per l’aiuto che forniscono ai livelli più bassi. 
Le cooperative inoltre stabiliscono regole e statuti propri in cui vige il principio democratico di una persona un voto, eleggono propri quadri dirigenziali e possono decidere obbiettivi propri e piani strategici d’investimento come tutte le normali aziende.
Dunque, mentre le industrie che si occupano di produzione su larga scala riducono progressivamente la piccola proprietà e intendono il lavoro come un mero costo anziché come un partner nel processo di produzione, dobbiamo immaginare una struttura industriale il cui sia diffusa in modo capillare la piccola proprietà e soprattutto che si contempli una diffusa proprietà dei mezzi di produzione. Per fare ciò – e per dirla con R. Aleman – dobbiamo essere capaci di riaccendere l’immaginazione, come un chestertoniano lampo di luce in un disegno a gessetti colorati.
Matteo Donadoni

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