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venerdì 10 settembre 2010

Buon compleanno Padre Brown, santo dall'aureola nera!

di Paolo Pegoraro

Sarà pure una singolare coincidenza, ma l'Anno sacerdotale indetto da Papa Benedetto XVI si è concluso a un secolo dalla nascita del più celebre tra i "preti di carta". Sì, perché padre Brown, il parroco detective uscito dalla penna di Gilbert K. Chesterton, fece la sua prima comparsa sul numero di "Storyteller" del settembre 1910. E oggi, per un'altra singolare coincidenza, ben tre editori italiani ci ripropongono le sue avventure (Morganti, con una nuova traduzione e veste grafica, Mursia e San Paolo). Piccolo, tozzo e dimesso, la talare sdrucita e l'immancabile ombrello che lo accompagna anche nella canicola più impietosa, padre Brown emana la bizzarra solennità di un personaggio dickensiano. Il saturno "simile a un'aureola nera" copre una faccia tanto più inespressiva quanto più è intelligente. Una faccia dove brillano due occhi guardinghi e uno sguardo lontano, "carico dell'umiltà di un incarico troppo grande per gli uomini". Com'è noto, Chesterton modellò il suo personaggio sulla figura di padre John O'Connor di Bradford, il quale non era né piccolo né tozzo né dimesso, e che, 17 anni dopo, avrebbe accolto lo scrittore londinese nella Chiesa cattolica. Perché le chiacchierate con padre O'Connor convinsero Chesterton a una verità sorprendente: il cattolicesimo ne sapeva più di lui non solo intorno al bene, ma perfino riguardo al male. L'incontro con il sacerdote irlandese - che risale al febbraio 1905 - fu però soltanto una delle tappe che portò, cinque anni dopo, alla nascita di padre Brown. Perennemente affascinato dalla chiazza di sangue e dal grottesco, Chesterton aveva ripetutamente parlato, tra il 1901 e il 1904, del genere poliziesco come "simbolo dei misteri più alti". E prima che "l'indagatore sacramentale" assumesse la forma compiuta di padre Brown, incontriamo due significative prove narrative di genere: Il club dei mestieri stravaganti (1905) e l'obbligatorio L'uomo che fu Giovedì (1908). In entrambi il protagonista è un uomo che vive separato dagli altri, un celibe eccentrico o un asceta, perché il detective puro - lo notava Leonardo Sciascia - non può possedere nulla che possa competere con la difesa della legge. A ben guardare queste due opere, però, ci si rende conto che i suoi protagonisti non sono mossi da ferreo legalismo. E che alla base della peculiare "scienza dell'anima" di padre Brown - così Antonio Gramsci, che preferiva il piccolo prete al pretenzioso Holmes - ci sono niente meno che due sacramenti: la Confessione e l'Eucaristia. Protagonista del Club dei mestieri stravaganti (1905) è Basil Grant, un ex giudice poeta e dal temperamento mistico, accompagnato dal fratello Rupert, detective privato di professione, uomo pratico e pronto all'azione, dotato di un'intelligenza acuta, sospettosa e tendenzialmente scettica. I sei racconti hanno la struttura del racconto poliziesco classico - richiesta di aiuto, indagine, svelamento - se non che ogni caso si conclude senza crimini o criminali. Tutti i "casi" si rivelano falsi allarmi originati da situazioni equivoche, con conseguente scorno di Rupert, che indaga per sorvegliare e punire, e fragorose risate di Basil, che indaga per assolvere. L'ultimo tratto caratteristico di Basil Grant viene rivelato nelle ultime pagine, dove si spiega perché egli ha lasciato il posto di giudice. La carcerazione gli sembrava inutile, ciò che occorreva davvero era "un bacio o una bastonatura". Il perdono o la correzione: ma desiderati dal profondo di sé, non subiti passivamente come pena immeritata o indulto non richiesto. Per questo Basil istituisce un "tribunale penale volontario" al quale si presentano quanti vogliono essere giudicati "non per le colpe pratiche cui nessuno bada, come il commettere un omicidio (...) ma per quelle colpe che rendono veramente impossibile la vita sociale", come l'egoismo, la maldicenza o la vanità. Divenuto un giudice "puramente morale", Basil Grant non sta facendo altro che amministrare - almeno simbolicamente - il sacramento della penitenza. Anche L'uomo che fu Giovedì si regge sul meccanismo di una colpevolezza apparente e sulla ricerca spasmodica di un criminale. Pagina dopo pagina, infatti, la lista degli indagati va assottigliandosi finché, giunti al sorprendente epilogo, le colpe di tutti sembrano concentrarsi su un solo indiziato. Solo che è il capo della polizia, colui che ha avviato l'indagine. "Di chi è la colpa?": a ben vedere questo interrogativo, che è poi quello del libro di Giobbe, esaurisce non solo quei polizieschi che si accontentano di "trovare un colpevole", ma anche una buona fetta della giustizia umana. L'uomo che fu Giovedì osa di più e rivolta la questione: non più "di chi" è la colpa, ma "qual è" la colpa reale, oltre le apparenze? E la colpa che si imputa al capo della polizia - il quale appare sempre più simile a un essere ultraterreno - non è quella di essere un anarchico, come si crede nelle prime pagine, ma di non aver mai conosciuto né dolore né sofferenza. E di essere, pertanto, colpevolmente felice. Le ultime parole che il personaggio soprannaturale lascia al protagonista, prima di scomparire, sono un preciso rimando al Vangelo di Marco (10, 38): "Potete bere nella coppa dalla quale io bevo?". È una prefigurazione del sangue sparso per la salvezza del mondo: il mistero eucaristico. L'immagine del calice nel quale si concentrano le colpe dell'umanità verrà ripresa in un racconto cardine della serie di padre Brown. Riassumendo, ecco le stazioni del "binario giallo" seguite finora da Chesterton: l'incontro con padre O'Connor (1905), l'invenzione di un singolare giudice che impartisce penitenze e assoluzioni (1905), infine un ancora più insolito capo della polizia che porta su di sé le colpe di tutti (1908). Il 20 febbraio 1909 egli scrive sul "Daily News": "La Chiesa è l'unico organismo che ha sempre tentato sistematicamente di perseguire e scoprire i crimini, non allo scopo di vendicarli, ma con l'intenzione di perdonarli. (...) La stranezza della Chiesa era questa sua impietosa pietà: era come un inesorabile segugio che insegue la preda per salvarla, non per ucciderla". La scena è pronta, gli indugi rotti, le metafore messe da parte. Entra in scena un sacerdote cattolico, l'investigatore sacramentale per eccellenza, che riassume in sé personaggi abbozzati: nasce padre Brown. Su questo umile eroe - non così distante dal curato d'Ars - c'è troppo da dire. Concentriamoci sul legame tra sacerdozio e investigazione. Nel racconto che dà il titolo al terzo volume del ciclo - Il segreto di padre Brown (1924) - il piccolo prete del Norfolk, temendo gli si attribuiscano poteri paranormali, si vede costretto a svelare il suo metodo d'indagine, "un esercizio talmente religioso che non avrei dovuto parlarne". Questo "esercizio spirituale" comincia concentrandosi sulla colpa: cosa c'è di desiderabile in questo atto? A quali attese risponde? Quale congerie di emozioni e pensieri conduce una persona a imboccare questa strada come inevitabile? Attraverso questa "immedesimazione" reale con il colpevole, riconosciuto uomo identico a se stesso e non più monstrum relegato dal suo delitto a una distanza incolmabile dal resto dell'umanità, padre Brown giunge infine a scoprirne l'identità. "Io - spiega il sacerdote - sono un uomo del tutto simile al criminale, eccetto che nella volontà di compiere l'azione finale". Perché padre Brown non si accontenta del meccanismo "colpa-colpevole", dove la prima è una diretta promanazione del secondo. Egli scende nell'abisso del "peccato-peccatore", dove il primo tiene prigioniero il secondo. Non basta punire il reato: bisogna sradicare il peccato. Il pretino inglese sa bene che il "cattivo" è prima di tutto un captivus, un essere tenuto "in cattività" dai suoi atti. La prima vittima del crimine è il criminale, perché omicidio e furto sono solo la maturazione di delitti ben più radicati, come l'invidia, la vendetta, la superbia e le eterne eresie. Identificati queste storture del cuore e della mente, non solo si scioglie il caso, ma si può portare soccorso al "colpevole" prima che il suo male lo autodistrugga. Padre Brown è un moderno inquisitore, un santo segugio che insegue la preda per salvarla da se stessa, laddove i giudici di questo mondo la vorrebbero soltanto sul patibolo. In uno dei racconti più potenti e meno noti della serie, Il grande dolente di Marne, padre Brown scaglia una memorabile invettiva contro chi fino a un attimo prima lo accusava di carente carità cristiana, ma poi, scoperto lo stato reale delle cose, reclama la testa del colpevole: "Continuate pure sul vostro comodo sentiero, perdonando tutti i vostri vizi preferiti e facendo i generosi nei confronti dei vostri crimini alla moda, e lasciate noi nelle tenebre, vampiri nella notte, a consolare coloro che veramente hanno bisogno di consolazione, coloro che compiono atti veramente indifendibili, cose che né il mondo né loro stessi possono difendere e che nessun altro se non un sacerdote potrà perdonare. Lasciateci con gli uomini che commettono i crimini peggiori, i più ributtanti e reali: orribili quanto san Pietro quando cantò il gallo, eppure l'alba sorse lo stesso". Lo scandalo del perdono rende il sacerdote un essere abbietto e spregevole agli occhi della giustizia del mondo, niente meno che un "vampiro", un essere che osa addentrarsi nella notte dell'anima. Quella notte nella quale Giuda si perse, nonostante fosse stato tallonato fino all'ultimo dall'Amore. Questa vicinanza al peccato, questo rispecchiarsi completamente nel peccatore meno che nell'assenso della volontà, provoca sconcerto: nella letteratura di ieri come nella cronaca di oggi. I benpensanti e sconvolti ascoltatori di padre Brown gli domandano prontamente se questa prossimità non lo renda troppo indulgente. La risposta del piccolo prete non lascia scampo. Ci sono due modi - egli spiega - per rinunciare al diavolo: averne orrore perché è troppo distante da noi, oppure perché è troppo vicino. Chesterton non faceva mistero di appartenere alla seconda catego- ria, come confessa nell'Autobiografia: "Quando la gente chiede a me, o a qualsiasi altro: "Perché vi siete unito alla Chiesa di Roma?", la prima risposta essenziale, anche se in parte incompleta, è: "Per liberarmi dai miei peccati". Perché non v'è nessun altro sistema religioso che dichiari veramente di liberare la gente dai peccati". Eppure fu proprio la personale discesa ad inferos che permise a Chesterton - e a padre Brown - di varcare la soglia regia del cristianesimo ed entrare là dove molti re e imperatori si rifiutarono di mettere piede: nel santuario del proprio essere. Prendiamo l'esempio letterario per eccellenza: Macbeth. Ucciso re Duncan e rimasto solo con se stesso, deve scegliere se ammettere di essere un traditore e un assassino, oppure negarlo, rivestendosi di menzogna. Imboccherà la seconda, diabolica via che lo condurrà a spargimenti di sangue sempre più grandi. Padre Brown si comporta in maniera specularmente opposta. Dopo aver spiegato ai suoi uditori il suo strano metodo d'investigazione, egli si ferma, meditabondo, a contemplare un particolare. "Padre Brown alzò il suo bicchiere e la fiamma rese il vino trasparente come un bicchiere rosso del sangue di un glorioso martire. La fiamma parve assorbire il suo sguardo che affondava sempre più, come se quel singolo bicchiere contenesse un mare rosso del sangue di tutti gli uomini, e la sua anima nuotasse, tuffandosi nell'oscura umiliazione, più in basso dei mostri più profondi, nel fango antico. (...) "Sì", disse, portando il calice alla bocca, "mi ricordo bene"". Il bicchiere che il piccolo sacerdote del Norfolk porta alle labbra è ben più di un bicchiere di vino. È la coppa nel quale sono raccolte le sofferenze dell'umanità. Quel "mare di sangue" che Macbeth sparge pur di non doversi riconoscere colpevole è racchiuso nel calice eucaristico che soltanto il Giusto può portare alle labbra. "Potete bere nella coppa nella quale io bevo?" aveva chiesto, al culmine della sua spaventosa epifania, il misterioso personaggio de L'uomo che fu Giovedì. A rispondergli c'è padre Brown. 

(L'Osservatore Romano, 8 settembre 2010)

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