Questa è la versione integrale della recensione di Uomovivo a cura di Paolo Pegoraro (per capirci, quella uscita sull'Osservatore Romano). Grazie a Paolo, la pubblichiamo perché Paolo è un amico, la recensione merita ed è interessante e perché ci aiuta a "lavare l'onta" dell'articolo di Pietro Citati su Repubblica di qualche tempo fa (...?)...
Sembra impossibile, ma ancora qualcuno inciampa nell'ideologia quando parla di Chesterton.
Autobiografia di un rivoluzionario
Torna il romanzo-capolavoro di Chesterton: “Uomovivo”
di Paolo Pegoraro*
ROMA, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Continua la primavera italiana di Chesterton. Dopo la riedizione di L’uomo eterno (Rubbettino), fuori commercio da oltre 70 anni, le doppie nuove traduzioni del San Francesco d’Assisi e del San Tommaso d’Aquino (Mursia, Lindau, Fede&Cultura), torna finalmente il suo romanzo-capolavoro: Uomovivo (Morganti, pp. 251, € 15). Era riapparso nel 1997 per Piemme nella traduzione, pure pregevole ma ormai stagionata (1933), di Emilio Cecchi.
In questa nuova versione di Paolo Morganti la preoccupazione filologica è ben presente fin dal titolo – l’originale è Manalive, cioè proprio Uomovivo – finora tradotto con Le avventure di un uomo vivo. E dire che lo stesso Chesterton dava grande importanza a questo soprannome del suo protagonista, tanto da precisare: «dovete scriverlo tutto attaccato, oppure lui si arrabbia davvero».
Ma chi è, dunque, questo “Uomovivo”? È Innocent Smith, vitale come una scimmia, fisico colossale e testa piccola, che compare d’improvviso in una locanda dove un pugno di giovani inquilini spreca la propria esistenza nell’indecisione. Smith è bufera umana. Al suo passaggio, folle e smisurato, avvengono episodi inspiegabili: improvvise proposte di matrimonio, furti, rapimenti e pistolettate a chi non festeggia il proprio compleanno.
L’onda di avvenimenti anomali preoccupa le autorità e alla pensione viene improvvisato un processo surreale per capire chi è Innocent Smith. Un rivoluzionario, uno «che ha spezzato le consuetudini, ma ha conservato i comandamenti», come vuole la difesa? Oppure – come sostiene l’accusa – uno che «ha lasciato nel mondo, dietro di sé, una lunga scia di sangue e di lacrime», un «grande diavolo fantastico» da rinchiudere in una fortezza protetta da cannoni? Due posizioni inconciliabili, assolute. Da teodicea. E in effetti viene da chiedersi se Innocent Smith non sia in una certa misura una figura tipologica di Cristo, l’unico innocente, che non apre bocca mentre lo processano.
D’altra parte la metafora del processo metafisico – tanto cara a Dostoevskij, Kafka, Lagerkvist o Wiesel – torna spesso nella narrativa di Chesterton (L’uomo che fu giovedì, la conclusione di Il club dei mestieri stravaganti, Quattro candide canaglie,...). Ma i suoi romanzi finiscono con improvvisi proscioglimenti da ogni accusa. Allegre assoluzioni.
Chi è, allora, Innocent Smith? Certamente non il coniuge di Mary Poppins, sua caramellosa caricatura. Perché Smith è innocente, ma non ingenuo. Anzi, è genuino proprio perché non è ingenuo. Cani e bimbi – invocati dal suo avvocato nel finale – sono ingenui, perché non possono scegliere il male; mentre Smith è innocente perché ha conosciuto la malattia nichilista, ma ha optato coraggiosamente per un’altra strada.
Nelle pagine immortali che raccontano la disputa dell’ancora giovane Smith con il suo professore universitario, il pessimista Emerson Eames, si percepisce un’impellenza straordinaria, palesemente autobiografica. Perché Smith prende sul serio la filosofia del suo professore: o, come egli sostiene, la vita è orribile nonsenso, e allora morire è un dono da regalarsi subito; oppure è la filosofia pessimistica a essere un orribile nonsenso, e allora bisogna estirparla con acribia. Provato che, nonostante i suoi roboanti proclami, il professor Eames si aggrappa alla vita quando gli viene puntata addosso una pistola, Innocent si dedicherà con zelo alla seconda missione. Ma le parole che suggellano la sua scelta sono, letteralmente, lapidarie: «Io dovevo provare che lei aveva torto o dovevo morire».
L’innocenza di Smith è stata comprata a caro prezzo. Egli non è irragionevolmente felice perché non ha mai conosciuto la disperazione, ma ragionevolmente entusiasta perché l’ha attraversato a nuoto, guadagnandosi la gioia di vivere bracciata dopo bracciata. «Fino a che non vediamo lo sfondo di tenebra – scriverà Chesterton in Eretici – non possiamo ammirare la luce anche di una sola cosa creata». Solo nel momento in cui ci si rende conto che le cose potrebbero benissimo non esserci, si smette di dare per scontata l’esistenza, nonostante la scandalosa costanza del suo ripetersi.
Il percorso di Smith altro non è che quello dello stesso Chesterton, il quale in gioventù si occupò «superficialmente d’infinite cose» – così nella sua Autobiografia –, perfino di spiritismo. Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata nello stallo di un’equidistanza intellettualista. L’iconografia classica del melanconico. Anche Chesterton, come Smith, affrontò un duello mortale con la disperazione, ma sconfisse la sua novecentesca “malattia dell’infinito” nel momento stesso in cui incontrò il volto dell’Infinito. E scoprì che esso aveva una faccia umana, naso bocca e due gambe, proprio come l’amabile gente comune, creata a Sua immagine.
Chesterton riconobbe l’Innocente negli occhi dell’uomo comune e volle essere il suo difensore (il cognome “Smith”, cioè “fabbro”, corrisponde al nostro “Rossi”: l’autore ne scrisse una vibrante apologia ancora nel 1905, dieci anni prima di scrivere Uomovivo). Non perché Chesterton fosse polemico di carattere: era piuttosto il mondo che continuava a provocarlo. Proprio non riusciva a stare zitto quando un garbato gentleman, sorseggiando il suo the pomeridiano, si lasciava sfuggire en passant che la vita non vale la pena di essere vissuta, offendendo in un sol colpo l’intero creato e il suo Creatore.
Per questo Chesterton potrà scrivere, ne L’osteria volante: «Trovare e combattere il male è il principio di ogni allegria». “L’eterna rivoluzione” è il titolo di uno dei capitoli più vibranti del suo saggio Ortodossia (1908). Ecco la fonte della sua inesauribile vis comica la quale, prima che essere comica, è soprattutto vis: un atto di rivolta, un’insurrezione, una reazione. Un motto di spirito, cioè un movimento provocato nelle acque di un’anima stagnante. Allegrezza e coraggio, epica contentezza, un giocoso senso di sfida: ecco il connubio chestertoniano vincente. Ma mai l’uno senza l’altro: mai l’infinita burletta che riveste un disperato carpe diem, mai l’eroica tragedia di un’inevitabile sconfitta contro il Fato. La sua è la grande risata degli uomini cristiani, come spiega nel poema La ballata del Cavallo Bianco (1911 – appena tradotto in italiano da Raffaelli editore).
Il ritratto più azzeccato dello scrittore fu una caricatura di Thomas Derrick che lo ritrasse come un san Giorgio burlesco, un assurdo Sancho Panza armato non della lancia del «cavaliere dalla triste figura», ma di… una penna. Che è più potente di ogni spada, come ben sapeva san Paolo.
Un’ultima domanda: se Uomovivo è Innocent Smith, e Smith è Chesterton, chi era Chesterton? Domanda affatto scontata se un critico della levatura di Pietro Citati – in un lungo articolo del 1997 recentemente riproposto – arguiva che lo scrittore inglese trovasse noioso il bene ed eccitante il male: quando il suo percorso umano e artistico fu precisamente il contrario, biografia e opere alla mano.
Chesterton, aggiunge Citati, «avrebbe dato la vita, e forse l’anima, per una bella battuta». Ma egli aveva capito, semmai, che una bella battuta poteva salvare una vita, talvolta perfino un’anima. «Una caratteristica dei grandi santi è il loro potere di leggerezza – scriverà in Ortodossia. – La serietà non è una virtù […] È facile esser pesanti, difficile essere leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità». Egli si difese dal culto della bella pagina reverendo l’umana emotività di scadenti romanzetti di genere.
Un ultimo appunto. Chesterton, secondo Citati, «condivideva nell’intimo l’idea dei suoi rivali: faceva fatica a non abbracciarla». Egli, ci pare, fu molto più generoso e molto più temerario: abbracciò i suoi rivali, ma sparò a vista alle loro idee. George Bernard Shaw non ebbe avversario più acerrimo né amico più sincero o biografo migliore di lui. H.G. Wells, fustigato per le oltre trecento pagine di L’uomo eterno, inviò un telegramma commosso per la morte del suo nemicoamico.
Chesterton li amò teneramente. Mandava allegramente al diavolo le loro gravi teorizzazioni perché essi, liberati dai macigni dell’ideologia, potessero sollevarsi fino a Dio come palloncini. Prendeva sul serio le loro idee e le proprie, ma non prese mai troppo sul serio se stesso. La beatitudine dell’allegria – così duramente scelta e conquistata – fece di lui un uomo capace di suscitare la simpatia e l’affetto di tutti, anche di chi pensava di essere un suo avversario.
Ecco, la cosa che più m'interroga nell'articolo di Citati (versione integrale del 1997) è che nella prima parte egli scrive che, per GKC, in Dio vi sono «il bene e il male confusi», e che GKC «accettò Dio, quale Egli fosse». Nell'ultima parte dell'articolo, invece, sostiene che GKC «trovava il male molto più divertente del bene». Quindi? buona la prima o la seconda? A sostegno di queste due affermazioni, Citati si appella entrambe le volte non ai testi, ma a cose che *forse* GKC confidò *solo* «al suo confessore». Ovvero alle uniche cose che egli non può sapere.
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