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giovedì 27 novembre 2008

Chesterton è attuale - 24 - Un bell'articolo di Ubaldo Casotto su Tempi

L’epoca più immorale che si sia conosciuta

È il tempo in cui si prende la fissazione per ragione, il narcisismo per amore, il suicidio per martirio. Chesterton e l’Ortodossia

di Ubaldo Casotto (vicedirettore de Il Riformista) - da Tempi del 21 Novembre 2008
Parliamo dell’“atto che vede”, dell’intelligenza, o, come la chiama GKC, della “salute mentale”. È uno degli argomenti più avvincenti di Chesterton, un capitolo di Ortodossia che andrebbe citato per intero, dove si spiega che il pazzo è colui che crede in se stesso («Oggigiorno ognuno crede esattamente in quella parte dell’uomo in cui dovrebbe non credere: se stesso, e dubita esattamente di quella parte di cui non dovrebbe dubitare: la ragione divina»); è il fissato, monomaniaco fino alla monotonia («Il pazzo… è preso dalla nitida e ben illuminata prigione di un’idea: è teso verso un punto solo, fino all’esasperazione»); è logico in modo esasperato perché cerca di ridurre la complessità dell’universo e dell’esistenza a un ordinamento semplificatore che sia alla sua misura («Il logico pre-tende di rinchiudere il cielo nella sua testa», «La coerenza del suo spirito è quello che lo rende stupido e pazzo allo stesso tempo»). Non è il poeta a essere lunatico, come facilmente si è portati a credere, ma il ragionatore: «Il pazzo non è l’uomo che ha perduto la ragione, ma l’uomo che ha perduto tutto fuor che la ragione». Il pazzo è colui che «come il determinista, vede in ogni cosa un eccesso di causa». «Se si potesse parlare di azioni umane senza causa, esse sarebbero semmai certe piccole azioni che un uomo sano compie senza annettervi importanza: fischiettare camminando, colpire l’erba col bastone, darsi pedate sui garretti, o fregarsi le mani. È l’uomo felice che fa cose inutili, l’uomo malato non ha la forza di abbandonarsi all’ozio. Queste azioni fatte negligentemente e senza scopo sono proprio di quelle che il pazzo non potrebbe mai capire». Il pazzo ha sempre coerenza e lucidità, ma è chiuso in un mondo piccolo: «La sua mente si muove in un cerchio perfetto ma ristretto. Un cerchio piccolo è infinito, come un cerchio grande, ma pur essendo ugualmente infinito non è ugualmente grande. Allo stesso modo una spiegazione assurda è completa come una spiegazione giusta, ma non abbraccia un campo altrettanto vasto. Una pallottola è tonda come il mondo, ma non è il mondo». Il primo problema dell’uomo contemporaneo non è che non sa risolvere l’enigma del mondo, è che non vede l’enigma. Lo censura, lo imprigiona dentro le sue idee, le sue fissazioni, le sue voglie confondendole con il desiderio, cerca di chiudere il mondo nella sua testa «e la testa gli scoppia». E gli scoppia, paradossalmente, non perché non regge la novità, non perché vi continui a entrare troppa realtà, troppe cose nuove da fuori, ma perché dal di dentro premono contro le sue pareti idee sempre più assurde.
Basterebbe aprire gli occhi. Tutta la differenza tra il cristianesimo e un generico buddismo, nel quale (in quanto filosofia interiore) Chesterton vede la sintesi dell’atteggiamento mentale dell’uomo contemporaneo ripiegato su di sé, è rivelata dalle rispettive statue: «Il santo buddista tiene sempre gli occhi chiusi e il santo cristiano li tiene ben spalancati… il buddista guarda con particolare attenzione dentro se stesso; il cristiano è rimasto a guardar fuori con intensità tragica».

L’importanza della separazione
Questa alternativa postura degli occhi rende ragione delle diverse avventure della conoscenza e dell’amore (o della libertà, che è la stessa cosa) cui ci si apre o ci si condanna.
Chesterton per spiegarsi ricorre al paradosso: per vivere la grande aspirazione dell’unità in cui consistono la conoscenza e l’amore bisogna accettare la separazione. È il primo caposaldo dell’Ortodossia, la spada che separa. E la prima separazione da riconoscere e accettare è tra il Creatore e la sua creatura. Come la nascita è una separazione, una unità che vive nella nuova forma di due vite che si allontanano, così è la creazione. «Dio è creatore allo stesso modo che è creatore un artista. Un poeta è così separato dal suo poema che ne parla come di una piccola cosa “gettata giù”. Nel darlo alla luce egli se ne è distaccato… tutta la creazione e la procreazione è un distacco… Una donna perde il bambino nel momento in cui lo partorisce. Ogni creazione è separazione. La nascita è un solenne commiato con la morte».
Che la natura non sia Dio ci permette di studiarla e di scoprirne le leggi (bisogna chiedersi perché la scienza sia nata nel mondo giudaico-cristiano e non nell’ambito di filosofie panteistiche), che l’altro non sia me mi permette di amarlo. «Io voglio amare il mio prossimo, non perché egli è me, ma precisamente perché non è me. Voglio adorare il mondo non come uno ama lo specchio perché vi ritrova se stesso, ma come uno ama una donna perché è totalmente diversa da lui. Se le anime sono unite, l’amore è evidentemente impossibile. Si può dire vagamente che un uomo ama se stesso, ma non che un uomo è innamorato di se stesso; se fosse, sarebbe un amore molto monotono». Ditemi se non è la descrizione del narcisismo dell’uomo contemporaneo sul quale pende una terribile pena del contrappasso: la solitudine. Chesterton ne accenna quando parla della Trinità e ne fa una questione di civiltà: «La religione occidentale ha sempre acutamente sentito l’idea che “non è bene che l’uomo sia solo”… è più salutare avere una religione trinitaria che una religione unitaria. Perché per noi trinitari… per noi Dio stesso è una società. È un mistero teologico senza fondo… (ma) questo triplice enigma è confortante come il vino e accogliente come un focolare inglese, questa cosa che turba l’intelligenza calma completamente il cuore; ma dal deserto, dai luoghi dell’aridità e dei terribili soli vengono i crudeli figli del Dio solitario: i veri unitari che con la scimitarra in mano hanno devastato il mondo. Perché non è bene che Dia sia solo». L’uomo è destinato a essere insieme a tutto ciò che c’è non perché è Dio, ma perché è fatto a immagine di Dio, e Dio è una comunione. È nel mistero della Trinità la radice del fatto che l’io non è solo.

Il male assoluto
Permettetemi un inciso che prende spunto dall’accenno alle violenze dell’islamismo radicale per mostrare quanto Chesterton sia attuale, o profetico. È un punto in cui due visioni apparentemente opposte si toccano, il laicismo ateo occidentale e, appunto, l’islamismo radicale: si tratta della questione del suicidio. Sentite cosa scriveva GKC cento anni fa: «Nacque la discussione se l’uccidersi fosse una bella cosa. Certi odierni sapienti ci hanno insegnato che non bisogna dire “pover’uomo” di uno che s’è fatto saltare le cervella, poiché egli era una persona invidiabile, e, se si è colpito al cervello, è perché aveva un cervello eccezionalmente fine… Per me il suicidio (e l’eutanasia come frutto di autodeterminazione ne è la forma più raffinata, ndr) non è soltanto un peccato, è il peccato; è il male supremo e assoluto, il rifiuto di prendere interesse all’esistenza, di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo; l’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini: per quanto lo riguarda distrugge il mondo… il ladro i diamanti lo appagano; il suicida no… il ladro rende omaggio alle cose che ruba se non al loro proprietario; il suicida insulta tutte le cose per il fatto stesso di non rubarle. Rifiutando di vivere per amore di un fiore, oltraggia tutti i fiori. Non c’è al mondo la più piccola creatura cui egli non irrida con la sua morte». Io capisco che sia un modo di argomentare duro, ma è l’unico modo di argomentare razionalmente: avere il coraggio del pensiero, distaccarlo dalle emozioni e dal sentimento dopo che questi ci hanno obbligato a interessarci a un fatto, e svolgerlo in tutte le sue conseguenze. Usare il pensiero come una spada appuntita, secondo l’immagine di Chesterton.
Anche sul suicida arriverà la pietà, ma non sul suicidio. Questa è una delle altre grandi separazioni che la spada dell’Ortodossia ha operato generando il paradosso della carità, che consiste nel «perdonare azioni imperdonabili, amare persone non amabili». Ciò che non riesce al razionalista, il quale ritiene che «fin dove l’atto è perdonabile, è perdonabile l’uomo», invece «il cristianesimo è arrivato all’improvviso come una spada, e ha diviso il delitto dal delinquente: il delinquente può essere perdonato fino a settanta volte sette; il delitto non deve essere perdonato affatto».
Incapace di reggere a questa morale «più larga» in cui consiste il «paradosso cristiano dei sentimenti paralleli», l’intellettuale moderno pensa di ridurre la religione a morale, privandola della sua forza di avvenimento e di pensiero: «Una inconsapevole grande chiesa di tutta l’umanità. I credi, si diceva, dividono gli uomini, la morale li unisce» (sembra di sentire Jovanotti). Ma chi sostiene queste tesi sostiene anche che la morale è sempre cambiata e che ciò che era vero in un’età era falso nell’altra. «Se cercavo un altare mi si rispondeva che non ce n’era bisogno, ma se osservavo che sempre gli uomini hanno desiderato un altare, mi dicevano che sempre gli uomini sono stati nelle tenebre della superstizione dei selvaggi».

Quando i vizi diventano valori
Giustamente Ernesto Galli Della Loggia osservava sul Corriere della Sera del 3 novembre scorso che l’unico elemento comune cui giungono tutte le correnti della modernità, laiche o marxiste che siano, è la critica alla religiosità e l’espulsione del cattolicesimo dalla vita pubblica. Ne è testimonianza in negativo il silenzio di fronte alle persecuzioni dei cristiani nel mondo. Costoro, osserva GKC, non si accorgono che la conseguenza dell’espulsione di Dio dalla vita di una società è il disprezzo per l’uomo. Non si rendono conto che gli «uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità, finiscono col combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa». Il risultato del moralismo contemporaneo è che invece di cercare di cambiare la nostra vita nei confronti dell’ideale cui tendiamo, troviamo più semplice cambiare di volta in volta l’ideale, «è più facile», con la conseguenza che l’epoca del trionfo dei discorsi sull’etica è l’epoca più profondamente immorale che si sia mai conosciuta, non perché piena di vizi, ma perché ha dato loro la dignità di valori. (Pensate a cosa vuol dire questo nei confronti dell’accoglienza di una persona handicappata: modificare il mondo perché sia adatto ad accoglierla o modificare l’ideale, ritenere cioè la sua vita indegna di essere vissuta ed evitargli l’incombenza di viverla).
Ma torniamo alla questione del suicidio, c’è un ulteriore passaggio che rende attuale questo pensiero, e riguarda quella forma particolare di suicidio che sono i kamikaze, per i quali si usa impropriamente il termine “martire”. Dice GKC: «Ho letto una solenne bestialità di qualche libero pensatore: il quale dice che il suicida è qualche cosa come un martire… Un suicida è evidentemente l’opposto di un martire. Il martire è un uomo che si appassiona a qualche cosa che è fuori di lui fino a dimenticare la sua esistenza personale, il suicida è un uomo che tanto poco si cura di tutto quello che c’è fuori di lui che ha bisogno di vedere la fine di ogni cosa. L’uno ha bisogno che qualche cosa cominci; l’altro che tutto finisca. Il martire confessa un estremo vincolo con la vita… muore perché qualche cosa viva. Il suicida… è puro distruttore: spiritualmente distrugge l’universo». Non sentite qui l’eco delle terribili parole di Osama Bin Laden dopo l’attacco alle Torri gemelle? «Perché sappiano che noi amiamo la morte più di quanto loro amano la vita».

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