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lunedì 31 marzo 2008

Un articolo su Chesterton da 30Giorni


Vi segnaliamo questo articolo su Chesterton del filosofo Massimo Borghesi uscito nel numero di Dicembre 2006 della rivista 30Giorni.

Si intitola "La religione della gratitudine".

In esso dice tra l'altro Borghesi: "La religione della gratitudine è l’ultima parola di Chesterton. Essa però, nella sua forma primitiva, così come nel panteismo, non salva dall’ingratitudine, dal peccato. Il trittico delineato nell’Autobiografia vede nel sacramento della confessione, nel cattolicesimo, il pieno compimento dell’atteggiamento generato dallo stupore dell’esistenza".

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16 Maggio 2022: siccome ci siamo accorti che molti articoli che segnaliamo dopo anni si perdono perché non sempre si ha costanza di mantenere un sito, o spesso succede che i siti cambiano, per non sbagliare abbiamo ritrovato il collegamento di questo articolo, che avevamo perso, e abbiamo pensato di pubblicarlo integralmente per non perderlo, sempre pronti a rimuoverlo qualora qualcuno legittimamente ce lo chieda.
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Letteratura 

La religione della gratitudine


L’autobiografia del grande scrittore inglese, in cui l’autore delle Storie di padre Brown mette a nudo sé stesso, i segreti della propria arte, il senso del suo humour. E ricostruisce la sua conversione 


di Massimo Borghesi


Gilbert Keith Chesterton

Gilbert Keith Chesterton

Autobiography (Autobiografia), pubblicata nel 1937 a un anno dalla morte dell’autore, è lo scritto che, più di ogni altro, consente di penetrare nell’animo di Gilbert Keith Chesterton. Il grande scrittore inglese, universalmente noto per le sue Storie di padre Brown, mette qui a nudo sé stesso, i segreti della propria arte, il senso profondo del suo humour. Lo scopo non è una narrazione fine a sé stessa, egocentrica e autocelebrativa, ma il racconto di una “conversione” che trova la sua espressione conclusiva in un sentimento di gratitudine. L’Autobiografia costituisce, da questo punto di vista, un’opera apologetica che rende manifesto il percorso esistenziale e speculativo che porta a Orthodoxy (Ortodossia, 1908), l’opera in cui Chesterton difende in modo arguto e geniale la fede cattolica, e agli altri lavori dell’autore. In Ortodossia la verità del cattolicesimo è dimostrata a partire dal presupposto che esso rappresenta la sanità, psichica e mentale, dell’uomo; l’equilibrio delle sue facoltà spirituali. La verità coincide qui con la sanità, l’errore con la follia. Si tratta di un metodo che rifiuta la dissociazione postkantiana tra logica e psicologia, e che trova la sua applicazione anche nel Franz Rosenzweig di Dell’intelletto comune sano e malato. Leggendo l’Autobiografia comprendiamo come questa scoperta sia stata fatta da Chesterton sulla propria pelle. Anche per lui la via del dubbio si è trasformata nella via della disperazione e della follia. Da queste lo ha liberato il cattolicesimo ridonandogli la meraviglia perduta della sua fanciullezza. Donde il ritmo ternario della sua narrazione: al tempo della meraviglia segue quello del dubbio e, da ultimo, dello stupore ritrovato. La fanciullezza, che per Chesterton trascorre «piacevole e allegra oltre ogni merito»1, è l’era della scoperta e della continua sorpresa di fronte al reale. «La candida luce di meraviglia che splendeva su tutto il mondo, non era una specie di burla»2. Contrariamente all’opinione corrente sui bambini, questi sanno perfettamente distinguere tra realtà e immaginazione. Ciò permette a Chesterton di non rinnegare la meraviglia originaria, di non relegarla tra i sogni variopinti della sua infanzia. «In una parola non ho mai perduto la convinzione che questa fosse la mia vera vita, il vero inizio di quanto dovrebbe essere stata una vita più reale, una esperienza perduta nella terra dei viventi. […] Soltanto l’adulto vive una vita di finzione e di simulazione. È lui che ha la testa in una nuvola. Naturalmente in quel tempo neppure sapevo che quella luce mattutina poteva andar perduta»3. È quanto accade a Chesterton nel periodo della sua giovinezza, «pieno di dubbi», che lascia nella sua mente «la certezza della solidità oggettiva del peccato»4. L’esperienza e la pratica dello spiritismo, comune nell’Inghilterra tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, unitamente allo scetticismo del suo tempo lo portano ad una sorta di «dubbio metafisico»5 per cui la distinzione tra realtà e sogno diviene impalpabile. L’uscita dal delirio, che a tratti ha i colori oscuri di un incubo, avviene attraverso un «mistico minimum di gratitudine»6 che si alimenta della lettura di Whitman, Browning, Stevenson. Per esso «anche la sola esistenza, ridotta ai suoi limiti più semplici, è tanto straordinaria da essere stimolante. Tutto era magnifico, paragonato al nulla. La luce del giorno poteva essere un sogno, ma un sogno, non un incubo»7
La religione della gratitudine è l’ultima parola di Chesterton. Essa però, nella sua forma primitiva, così come nel panteismo, non salva dall’ingratitudine, dal peccato. Il trittico delineato nell’Autobiografia vede nel sacramento della confessione, nel cattolicesimo, il pieno compimento dell’atteggiamento generato dallo stupore dell’esistenza
È questo stupore che consente a Chesterton di trovare il ponte verso la dimensione religiosa. «Di fatto, ero arrivato a una posizione non molto lontana dalla frase del mio nonno puritano, il quale avrebbe ringraziato Dio per averlo creato, diceva, anche se fosse stato un’anima perduta. Ero attaccato ai resti della religione con un piccolo filo di riconoscenza. […] Ciò che intendevo, riuscissi o no a dirlo, era questo: che nessun uomo sa fino a qual punto è ottimista, anche se chiama sé stesso pessimista, perché nessun uomo ha veramente misurato la vastità del debito verso quel qualsiasi essere che l’ha creato e che lo ha reso capace di chiamarsi qualcosa. Dietro il nostro cervello, per così dire, v’era, dimenticata, una vampa o uno scoppio di sorpresa per la nostra stessa esistenza. Scopo della vita artistica e spirituale era di scavare questa sommessa alba di meraviglia»8. Come Chesterton scrive nell’Autobiografia: «Lo scopo della vita è l’apprezzamento»9. Questo è autentico, e non ottimismo banale, solo là dove è accompagnato dalla «gratitudine che si addice a colui che è indegno»10. L’apprezzamento, unito all’umiltà, di colui che non ha diritti da rivendicare, consente il godimento delle cose vicine. «Ciò che conta», scrive Emilio Cecchi, «è di giungere ad apprezzare i propri beni come li apprezza chi se ne farebbe anche ladro. Di riuscire ad amare la propria moglie, in modo da avere con lei cento fidanzamenti»11. V’è in Chesterton, come in Péguy, l’idea che il Paradiso, luogo di un amore sempre nuovo, sia fatto di cose familiari: di campi di grano, del “lampione” davanti alla propria casa, in cielo. In questa continua sorpresa di fronte all’essere «Io», confessa l’autore al termine della sua vita, «sono diventato vecchio senza annoiarmi. L’esistenza è ancora una cosa mirabile per me, e le do il benvenuto come a un forestiero»12
«Quando un cattolico ritorna dalla confessione entra veramente, per definizione, nell’alba del suo stesso inizio [...]. Egli sa che in quell’angolo oscuro, e in quel breve rito, Dio lo ha veramente rifatto a Sua immagine»
La religione della gratitudine è l’ultima parola di Chesterton. Essa però, nella sua forma primitiva, così come nel panteismo, non salva dall’ingratitudine, dal peccato. Il trittico delineato nell’Autobiografia vede nel sacramento della confessione, nel cattolicesimo, il pieno compimento dell’atteggiamento generato dallo stupore dell’esistenza. Per Chesterton, che si converte nel 1922, la Chiesa romana è, innanzitutto, ambito di rigenerazione, luogo in cui la meraviglia originaria della fanciullezza torna ad essere possibile e attuale. «Quando un cattolico ritorna dalla confessione entra veramente, per definizione, nell’alba del suo stesso inizio, e guarda con occhi nuovi attraverso il mondo, a un Crystal Palace che è veramente di cristallo. Egli sa che in quell’angolo oscuro, e in quel breve rito, Dio lo ha veramente rifatto a Sua immagine. Egli è ora un nuovo esperimento del Creatore. È un esperimento nuovo tanto quanto lo era a soli cinque anni. Egli sta […] nella luce bianca dell’inizio, pieno di dignità, della vita di un uomo. Le accumulazioni del tempo non possono più spaventare. Può essere grigio e gottoso, ma è vecchio soltanto di cinque minuti»13Questa perenne giovinezza, frutto della confessione dei peccati, riporta Chesterton al «primo sguardo del glorioso dono dei sensi, alla sensazionale esperienza della sensazione»14. Lo riporta al primato della realtà, che il “dubbio metafisico”, con il suo mondo interiore di spettri, così simile alla follia, aveva tentato di dissolvere. Da questo mondo l’adorazione del Dio “esterno”, e non di quello “interno” stoico-idealistico, lo aveva liberato. Come dirà in Ortodossia: «Il cristianesimo è venuto nel mondo prima di tutto per affermare con violenza che l’uomo doveva guardare non solamente dentro di sé, ma anche fuori, doveva ammirare con stupore ed entusiasmo un divino drappello e un divino capitano. Il solo piacere che si prova a essere cristiani è quello di non sentirsi soli con la Luce interiore, è quello di riconoscere nettamente un’altra Luce, splendida come il sole, chiara come la luna»15.  


Note 
1 G.K. Chesterton, Autobiografia,  
tr. it., Casale Monferrato 1997, p. 50. 
2 Ibid., p. 51. 
3 Ibid., p. 56. 
4 Ibid., p. 80. 
5 Ibid., p. 92. 
6 Ibid., p. 94. 
7 Ibid., p. 93. 
8 Ibid., pp. 93-94. 
9 Ibid., p. 325. 
10 Ibid., p. 326. 
11 E.Cecchi, «Introduzione» a: G.K. Chesterton, Opere scelte, Firenze – Roma 1956, p. XIV. 
12 G.K.Chesterton, Autobiografia, op. cit., p. 382. 
13 Ibid., pp. 321-322. 
14 Ibid., p. 334. 
15 G. K. Chesterton, Ortodossia, tr. it., Brescia 1995, pp.105-106. 

1 commento:

  1. Anonimo19:00

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