Pagine

venerdì 9 febbraio 2007

Chesterton: l’innocenza e il paradosso

Pubblichiamo per gentile concessione dell'autore, il caro amico Paolo Gulisano, il bel saggio pubblicato sul numero 255 del Dicembre 2006 del periodico della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor "KOS", in occasione del 70° anniversario della morte dello scrittore.


Lo scrittore inglese, famoso in Italia soprattutto per i racconti di Padre Brown, produsse in realtà una quantità copiosissima di scritti. Affascinato fin da adolescente dal soprannaturale e dal miracoloso, crebbe con una incrollabile fiducia nell’innocenza e nella sanità mentale, senza cadere vittima di ingenuità o facile ottimismo. Per questo le fiabe per bambini gli apparvero sempre ricche di ragione e tradizione, e alimentarono in lui un personalissimo gusto del paradosso. Tutti elementi, questi, che ritrovò nella fede cristiana più autentica

Nell’estate di settant’anni fa si spegneva, nel tranquillo villaggio inglese di Beaconsfield, Gilbert Keith Chesterton, ovvero uno tra i più significativi autori della cultura inglese ed europea del Novecento. Saggista, apologeta cristiano, giornalista, narratore appassionante che incantò generazioni di lettori; fu persino tra i fondatori di un movimento economico-politico, il Distributismo, che cercò nell’Inghilterra degli anni Trenta una via alternativa che vedesse la realizzazione della Dottrina Sociale Cristiana attraverso un processo di ridistribuzione più equa dei beni di produzione e delle ricchezze.
Intellettuale libero e anticonformista, dalla produzione ricchissima, il nome di Chesterton è tuttavia collegato, per lo meno in Italia, quasi esclusivamente al personaggio di Padre Brown. Quando negli anni 1970-1971 la televisione di Stato produsse una serie di sceneggiati aventi per protagonista questo prete detective, interpretato dal grande attore Renato Rascel, l’audience media fu di diciotto milioni di spettatori a puntata. Nelle storie di Padre Brown, nei racconti, nei romanzi, nei saggi storici e in quelli politici, in tutto ciò, in tutta la vita e le opere di questo scrittore trapela una visione nuova e originalissima (e per molti aspetti tutta ancora da riscoprire e valorizzare) dell’apologetica. Per Chesterton infatti il cristianesimo si fa cultura e non diventa subalterno al mondo, ma lo giudica, e se Dio vuole lo cambia e lo migliora. Il tutto, e questo è l’aspetto più affascinante, senza asprezze, senza conflittualità, senza anatemi. È l’apologia dell’amore, che non cerca lo scontro ma l’incontro, è la difesa della Verità nella Carità. Chesterton mostrò come si testimonia la fede in una società a essa largamente indifferente, non solo non più cattolica, ma nemmeno più cristiana. È un’apologia che si avvale del sorriso dell’innocenza e dei paradossi che smascherano le menzogne, grandi e piccole. La lettura di Chesterton, sia che si tratti dei romanzi che dei saggi, lascia sempre nel lettore una grande serenità e un sentimento di speranza che scaturisce non certo da una visione della vita irenistica e mondanamente ottimistica (che è in realtà quanto di più lontano dal pensiero di Chesterton, che denuncia dettagliatamente tutte le aberrazioni della modernità) ma dalla cristiana, virile fortezza dell’esperienza religiosa. La proposta di Chesterton è quella di prendere sul serio la realtà nella sua integrità, a cominciare dalla realtà interiore dell’uomo e di adoperare fiduciosamente l’intelletto - ovvero il buon senso - nella sua originale sanità, purificato da ogni incrostazione ideologica. Raramente capita di leggere delle pagine in cui si parla di fede, di conversione, di dottrina, tanto chiare ed incisive quanto prive di ogni eccesso sentimentalistico e moralistico. Ciò deriva dall’attenta lettura della realtà di Chesterton, il quale sa che la conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione, sintetizzabile in questo suo giudizio: “Il mondo moderno ha subìto un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo morale”. Di fronte a questo scenario Chesterton sceglie il cattolicesimo, e afferma che esistono almeno diecimila ragioni per giustificare questa scelta, tutte valide e fondatissime ma riconducibili a un’unica ragione: che il cattolicesimo è vero, la responsabilità e il compito della Chiesa consistono dunque in questo: nel coraggio di credere, in primo luogo, e quindi di segnalare le strade che conducono al nulla o alla distruzione, a un muro cieco o a un pregiudizio. “La Chiesa - dice Chesterton -difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori”. Anche il grande Josè Luis Borges ne era un grande estimatore. È particolarmente significativo riportare il giudizio del grande scrittore argentino, che è quello di un non credente scettico che trascorse l’intera vita a indagare il Mistero: “L’adolescenza di Chesterton corrisponde agli anni disperati e crepuscolari del simbolismo e del decadentismo. Da tale negazione lo salvarono la grande voce americana di Whitman e quella di Stevenson, che moriva su un’isola del pacifico e ‘cantava come canta un uccello nella pioggia’. Affermare che una persona bonaria e affabile come G.K.C. fu anche un uomo segreto, che sentiva l’orrore delle cose, può sorprenderci, ma la sua opera, contro la sua volontà, lo testimonia…”. Così paragona le piante di un giardino ad animali incatenati, il marmo a una luce lunare solidificata, l’oro a un rogo congelato e la notte a una nube più vasta del mondo e a un mostro fatto di occhi. Avrebbe potuto essere Kafka o Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità o finse di averla trovata. Dalla fede anglicana passò a quella cattolica, che, secondo lui, è basata sul buon senso. Arguì che la stranezza di tale fede si attaglia alla stranezza dell’universo, come la strana forma di una chiave si adatta perfettamente alla strana forma della serratura. In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo a un mero propagandista cattolico. Innegabilmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta. È assai significativo che le sue due splendide epopee, The Ballad of the White Horse (1911) e Lepanto (1912), commemorino vittorie di cristiani su pagani. La prima celebra una battaglia tra Alfredo il Grande e i vikinghi; nella seconda compaiono successivamente il Sultano di Costantinopoli, Maometto nel suo terribile paradiso, Filippo II, il Papa nella sua cappella segreta, Miguel de Cervantes che rinfodera la spada sognando già Don Chisciotte, e l’ombra costante di don Giovanni d’Austria, tutto inteso alla gloria. Senza pregiudizio per il grande amore che portava all’Inghilterra e alla Francia, Chesterton vide sempre in Roma il centro del mondo. Leggiamo in una sua lettera: “È insensato andare a Roma se non si possiede la convinzione di tornare a Roma”. L’opera critica di Chesterton - i libri su Dickens, Browing, Stevenson, Blake e il pittore Watts - non è meno incantevole che penetrante; i suoi romanzi, scritti all’inizio del secolo, uniscono il mistico al fantastico, ma la sua fama attuale si deve soprattutto a quelle che si potrebbero chiamare le Gesta di Padre Brown. Bisogna prevedere un’epoca in cui il genere giallo, invenzione di Poe, sia scomparso, poiché è il più artificiale di tutti i generi letterari e il più simile a un gioco. Chesterton stesso ha lasciato scritto che il romanzo è un gioco di facce e il romanzo giallo un gioco di maschere… Malgrado questa osservazione e la possibile eclissi del genere, sono certo che i racconti di G.K.C. saranno sempre letti, poiché il mistero che suggerisce un fatto impossibile e soprannaturale è interessante quanto la soluzione di ordine logico che ci danno le ultime righe”. L’opera di Chesterton è una sorta di medicina per l’anima, anzi, più precisamente può essere definita un antidoto. Lo stesso scrittore aveva in realtà usato la metafora dell’antidoto per indicare l’effetto sul mondo della santità: il santo ha lo scopo di essere segno di contraddizione e di restituire sanità mentale a un mondo impazzito. “Ancora ogni generazione cerca per istinto il suo santo - aveva detto -, ed egli è non ciò che la gente vuole, ma piuttosto colui del quale la gente ha bisogno… Da ciò il paradosso della storia che ciascuna generazione è convertita dal santo che la contraddice maggiormente”. Il modo con cui Chesterton ha contraddetto la generazione del suo tempo è stato quello dell’essere felice. Una felicità autentica, che per essere tale non prescinde affatto dal dolore, dalla fatica e dalle lacrime. Il tempo di Chesterton è quello che va dall’ultimo quarto dell’Ottocento (nacque a Londra nel 1874) alla prima, tragica parte del Novecento (si spense, come detto, nel 1936), da quando Londra era il cuore e la mente della civiltà occidentale e dell’ordine da lei stabilito sotto il regno della Regina Vittoria, fino agli orrori della Grande Guerra e all’affermarsi delle peggiori ideologie novecentesche. Nella potente, pragmatica e razionalista Inghilterra vittoriana, Gilbert crebbe con un gusto profondo per il miracoloso, per il soprannaturale. Nella sua celebre opera apologetica Ortodossia ebbe a scrivere: “La mia prima ed ultima filosofia, quella alla quale ho creduto con ininterrotta certezza, l’ho imparata da bambino. L’ho imparata generalmente da una nutrice: solenne e predestinata sacerdotessa della democrazia e della tradizione. Le cose in cui in cui credevo e credo più fermamente, allora come adesso, sono le cosiddette fiabe. Le fiabe a me sembrano del tutto ragionevoli. Non sono fantasie: al loro confronto, ogni altra cosa è fantastica. Se paragonati a loro, la religione e il razionalismo sono anormali, per quanto la religione sia anormalmente giusta e il razionalismo anormalmente errato. La Terra delle Fate non è altro che l’assolato Paese del Buon Senso”. La conclusione cui Chesterton arriva è quindi che “non è la terra che giudica il cielo, ma il cielo che giudica la terra”. Si può dire che Chesterton fosse un ingenuo, un bambino che non voleva crescere, affetto da quella che si potrebbe definire la “Sindrome di Peter Pan”? Niente affatto: l’innocenza, che fu tra tutte le virtù chestertoniane la più limpidamente evidente e la più affascinante per amici, conoscenti e per i tantissimi lettori, non è da confondersi con l’ingenuità o con l’infantilismo ignaro del mondo e dei suoi variegati aspetti. Cosa fosse la realtà che lo circondava Chesterton lo sapeva benissimo, fin da quei primi anni pieni di fiabe e di teatri delle marionette, come rivela ancora nella Autobiografia: “La mia vita si è srotolata nell’epoca dell’’evoluzione’, parola che, in realtà, significa semplicemente ‘farsi palese’. Molti evoluzionisti dell’epoca, in apparenza, credevano veramente che l’evoluzione fosse il palesarsi di un divenire. Da allora, in un’accezione molto particolare, sono: giunto a credere nello ‘sviluppo’. Ciò per me significa che si rende manifesto quanto in nuce esiste già. Ora può sembrare una pretesa tanto ardita quanto dubbia se affermo che nella mia infanzia, c’ero già tutto. Perlomeno, molti di quelli che mi conoscevano da vicino possono dubitarne fortemente. Ma io voglio dire che la mia capacità di giudizio esisteva già allora; io non ne ero cosciente, ma la possedevo già. In breve, esisteva nell’infanzia nella condizione detta implicita”. Uscito dall’infanzia, Gilbert si trovò a vivere in un mondo duro, pieno di male, spietatamente competitivo, che non era fatto per lui. All’università fallì, si sentiva un ousider, e piombò nel tunnel della depressione e del solipsismo.Ne uscì, tuttavia, con fatica e con gioia, perché riuscì, nonostante tutto, a scorgere la possibilità di preservare l’innocenza dell’infanzia. La prova del dolore gli aveva lasciato due certezze, una del Vecchio e l’altra del Nuovo Testamento. La prima riposa in quella frase ripetuta nella Genesi ad ogni creazione di quanto vi è nel mondo: “Dio vide che era cosa buona”. La creazione, il mondo, sono opera di Dio, e opera buona. Il male, la corruzione, sono successive, ma tutto quanto è stato fatto da Dio è stato fatto come cosa bella, buona e giusta. Questo smentiva ogni pretesa manicheistica e liberava dall’ossessione del male. Il destino dell’uomo moderno non era necessariamente quello indicato nel più inquietante dei romanzi di Stevenson,un autore tanto amato da Gilbert, Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde, ossia andare incontro a una scissione, a una destrutturazione. Tutto stava nel saper riprendere la strada che portava al Bello e al Vero, e il metodo era stato indicato nel Vangelo: “Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”. Gilbert era riuscito a trovare la via d’uscita ai suoi tormenti nella semplice quanto ardua verità del cristianesimo. Ora sapeva che tutta la meravigliosa, pura ricchezza dell’infanzia non sarebbe andata perduta. “Ciò che è meraviglioso nella fanciullezza - scrisse - è che in essa tutto è meraviglia. Non è semplicemente un mondo pieno di miracoli, ma un mondo miracoloso. Questa forte emozione mi viene data da quasi tutto ciò di cui io mi ricordo veramente, non dalle cose che io penserei più degne di essere ricordate”. Non la pretesa di mantenere una forzosa ingenuità, ma la capacità di guardare al mondo con uno sguardo autentico: “Soltanto l’adulto vive una vita di finzione e di simulazione. È lui che ha la testa in una nube”. Gilbert decise di combattere per dissipare le nubi della confusione e della menzogna: se la difesa dell’innocenza era il punto di partenza, l’arma d’attacco per smascherare la falsità che oscura agli occhi umani il Vero divenne il paradosso. Il paradosso in Chesterton è un apparente mancanza di senso che in realtà rivela l’anti-buonsenso che avvelena la quotidianità: “In bene o in male, l’Europa, dalla Riforma in poi, e più specialmente l’Inghilterra, sono state, in un peculiare senso, la dimora del paradosso. Intendo nello stesso peculiare senso che il paradosso sia una dimora, e che gli uomini vi si sentano a casa propria. L’esempio più familiare è il vanto degli inglesi di essere pratici perché non sono logici. (…) Ma il nocciolo della questione non sta qui, sta nel paradosso come in una banalità. Non che gli uomini pratici stiano ritti sulla testa, il che potrebbe qualche volta essere stimolante, anche se sorprendente ginnastica, ma che loro riposino sulla testa, e perfino dormano sulla testa. È un punto importante, perché l’utilità del paradosso sta nel risvegliare la mente”.
La sua prosa fu sempre brillante, toccante, appassionante, e ciò a motivo del fatto che scriveva per rendere omaggio alla verità. Non semplicemente e riduttivamente uno “scrittore cristiano”, dove con questo termine la critica vuole solitamente collocare l’autore credente in una determinata nicchia, con una etichettatura utile a catalogarlo (e a circoscriverlo), ma un artista che traeva dalla propria fede le ragioni, le passioni, le motivazioni per esprimere pienamente il proprio genio, e per il quale lo sguardo della fede sul mondo era il motivo primo di ispirazione, la guida alla ragione. La vita come enigma è il senso del Libro di Giobbe, definito da Chesterton, che vi aveva trovato ristoro e salvezza nella crisi terribile degli anni giovanili, come il più grande poema religioso dell’umanità. Enigma, o mistero, non nel senso di qualcosa di ignoto, di in conoscibile, di assurdo, ma come una risposta che attende una domanda, una domanda posta nel modo giusto. Chesterton notava che in Giobbe l’affermazione che convince il dubbioso non è l’immagine dell’ordinata bontà del creato, quale l’aveva raffigurata la religiosità rigorosamente razionale del XVIII secolo, bensì la descrizione della sua immensa e arcana irrazionalità. E la sorpresa stupita di fronte a un Dio che supera incommensurabilmente i nostri calcoli e le nostre previsioni intellettuali è all’origine dell’atto di fede. Aveva scritto nel suo libro The Defendant: “La letteratura della gioia è infinitamente più difficile, molto più rara e molto più trionfante della letteratura del dolore avvolto in gramaglie”. Chesterton realizzò anche nei suoi racconti polizieschi, in particolare quelli che hanno come protagonista Padre Brown, una forma d’arte perfettamente legittima, addirittura elevandola al rango di moderna epica: l’investigatore è il moderno eroe che vive la sua Iliade nei meandri delle strade della città. ”Il romanzo poliziesco - spiegò - ci offre uno spaccato realistico della vita umana, e si basa sul fatto che “la moralità è il più oscuro e ardito dei complotti”. Gran parte della sua fama mondiale venne a G.K.C. proprio da uno di questi personaggi, inizialmente solo una delle diverse figure di investigatore a cui pensava. Si trattava di un piccolo prete dalla faccia tonda, umile, dimesso, ma dalla mente pronta, straordinariamente acuta, in grado di gareggiare con i più abili poliziotti e delinquenti non in astuzia, ma in intelligenza. Un prete cattolico, personaggio che appare per la prima volta in un racconto del 1910, diversi anni prima quindi della sua conversione. Chesterton per primo fu stupito del successo di questo personaggio, e si trovò quasi obbligato a dargli continuità. Padre Brown aveva una sua ben precisa fonte di ispiazione: un sacerdote di origine irlandese, Padre John O’Connor, che lo scrittore aveva conosciuto nel 1903 e con il quale era subito nata una profonda amicizia. Gilbert rimase colpito dal suo tatto, dal suo spirito, dalla sua brillante intelligenza. Lo descrisse piccolo di statura, come Padre Brown, con “un’aria discreta da elfo”, senza l’apparenza dimessa del suo personaggio. I due cominciarono a frequentarsi, a fare lunghe passeggiate insieme nella campagna di Beaconsfield, un piccolo paese a metà strada tra Londra e Oxford dove Chesterton si trasferì poco dopo il matrimonio con Frances, a causa della salute cagionevole di lei. Visti da lontano, il mastodontico Gilbert e il minuto Padre O’Connor dovevano rassomigliare parecchio a Padre Brown e Flambeau, il famoso criminale internazionale convertito dal prete e trasformato nel suo inseparabile collaboratore, e il cui ateismo era capitolato di fronte alla ragionevolezza della fede. Negli anni in cui cominciò a frequentare Padre O’Connor la fede cristiana di Gilbert era ancora imprecisa, ma non come quella di uno scettico, bensì come quella di un bambino che attende risposte dai grandi. La sua religiosità era soprattutto vetero-testamentaria. Non aveva frequentato in quegli anni nessuna chiesa cristiana, anche se per amore alla moglie cominciò ad accompagnarla alle funzioni anglicane. Lo stesso amore, e la paura di darle un dolore con tale scelta, fecero sì che dilazionasse per quasi vent’anni la scelta di entrare in quella Chiesa Cattolica che lo aveva affascinato e conquistato grazie a Belloc e Padre O’Connor . Quel cattolicesimo che imparò ad amare e ad apprezzare, prima che nei suoi contenuti dottrinari, per quelle qualità di umiltà, semplicità e intelligenza che pose nel personaggio del prete investigatore. In un racconto, La forma errata, che fa parte della raccolta L’innocenza di Padre Brown, un medico razionalista che ha compiuto un delitto e che si riconosce scoperto e sconfitto, esprime al piccolo prete il suo stupore stizzoso, con una presunzione non ancora del tutto piegata: “Caro Padre Brown, Vicisti, Galilee. In altre parole, maledizione ai suoi occhi troppo penetranti. Sarà mai possibile che vi sia qualcosa di vero nelle sciocchezze alle quali lei crede?”. In Padre Brown non c’è mai compiacimento dei propri successi: c’è il dolore per tutto il male che c’è nel mondo, un dolore sereno mitigato dalle tre virtù cardinali che egli incarna con semplicità: la fede, che non viene mai meno e che egli comunica e trasmette con naturalezza; la speranza, che anima la sua attività di prete e investigatore, con l’intenzione di salvare il peccatore, se non di impedire il peccato; la carità, ovvero l’amore, la capacità di offrire il perdono di Dio, il desiderio di vedere non la morte (o la punizione) del colpevole, ma la sua conversione.
La coppia di investigatori Padre Brown-Flambeau può apparire molto diversa da quella più famosa partorita dall’immaginazione dello scrittore scozzese Arthur Conan Doyle, ovvero Sherlock Holmes e il dottor Watson, e qualche critico vi ha voluto leggere un’aperta contrapposizione. Chesterton, nella sua bonomia, non entrò mai in polemica con Doyle, che aveva percorso un cammino opposto al suo, abbandonando la fede cattolica nella quale era nato, diventando un ferreo razionalista (come Holmes) per poi finire col praticare lo spiritismo e cercando di provare scientificamente l’esistenza dei folletti. Le storie di Padre Brown proseguirono il loro corso, non incrociandosi mai con il triste scettico di Baker Street. Entrambi gli investigatori continuarono ad affrontare i più intricati misteri, affrontandoli con l’uso della ragione. L’unica differenza tra Padre Brown e Holmes era che il piccolo prete sapeva che questa è un dono di Dio, che funziona al meglio quando è rischiarata dalla Grazia. Essere difensori della fede, al di là dell’espressione che può sembrare sorpassata, significava per Chesterton difendere anzitutto le tre virtù cardinali, fede speranza e carità. In The Defendant aveva spiegato che:“L’azione di difesa di una qualunque delle virtù cardinali suscita oggi ilarità, quasi si trattasse di un vizio. Le ovvie verità morali sono state così a lungo dibattute che hanno cominciato a sfavillare come tanti fulgidi paradossi. È soprattutto attorno a chi difende l’umiltà che aleggia, in questa epoca di idealismo egoista, qualcosa di indissolubilmente dissoluto”. Difendere e testimoniare la fede diventa dunque un’azione assolutamente controcorrente, autenticamente anticonformista, scandalo e follia agli occhi del mondo. Chesterton, nel 1922, dopo anni di apologetica giornalistica, di gialli appassionanti, di saggi storici, si decise a compiere una scelta che aveva maturato a lungo. Anni dopo, parlandone nella sua Autobiografia, così spiegava le ragioni della sua decisione: “Quando la gente chiede a me o a qualsiasi altro: ‘Perché vi siete uniti alla Chiesa di Roma?’, la prima risposta essenziale, anche se in parte incompleta, è: ‘Per liberarmi dai miei peccati’. Perché non v’è nessun altro sistema religioso che dichiari veramente di liberare la gente dai peccati. Ciò trova la sua conferma nella logica, spaventosa per molti, con la quale la Chiesa trae la conclusione che il peccato confessato, e pianto adeguatamente, viene di fatto abolito, e che il peccatore comincia veramente di nuovo, come se non avesse mai peccato. (…) Dio lo ha fatto veramente a Sua immagine. Egli è ora un nuovo esperimento del Creatore. È un esperimento nuovo tanto quanto lo era a soli cinque anni. Egli sta nella luce bianca dell’inizio pieno di dignità della vita di un uomo. L’accumularsi di tempo non può più spaventare. L’uomo può essere grigio e gottoso, ma è vecchio solo di cinque minuti. L’idea cioè di accettare le cose con gratitudine, e non di prenderle senza curarsene. Così il Sacramento della Penitenza dà una vita nuova, e riconcilia l’uomo con tutto ciò che vive: ma non lo fa come lo fanno gli ottimisti e i predicatori pagani della felicità. Il dono viene fatto ad un prezzo ed è condizionato alla confessione. Ho detto che questa religione, rozza e primitiva, di gratitudine, non mi salvò dall’ingratitudine del peccato, che per me è orribile al massimo grado, forse perché è ingratitudine. Ho trovato soltanto una religione che osasse scendere con me nella profondità di me stesso”. Fu così che divenne cattolico:il difensore della fede ora aveva una bandiera da tenere alta, con umile fierezza, con mite determinazione. Il senso del bisogno che la Chiesa combatta per il mondo era molto forte in Gilbert, e trova la sua più compiuta e significativa espressione in un articolo pubblicato sul New Witness, nel quale ribattè l’insinuazione di un giornale secondo il quale la Chiesa avrebbe dovuto “muoversi coi tempi”; pochi scritti come questo possono dare al cristiano di oggi il senso del proprio compito nel mondo: “La Chiesa non può muoversi coi tempi; semplicemente perché i tempi non si muovono. La Chiesa può solo infangarsi coi tempi e corrompersi e puzzare coi tempi. Nel mondo economico e sociale, come tale, non c’è attività, eccettuata quella specie di attività automatica che è chiamata decadenza: l’appassire dei fiori della libertà e la loro decomposizione nel suolo originario della schiavitù. In questo, il mondo si trova per molte cose allo stesso piano dell’inizio dell’oscuro medioevo. E la Chiesa ha lo stesso compito di allora: salvare tutta la luce e la libertà che può essere salvata, resistere a quella forza del mondo che attrae in basso, e attendere giorni migliori. Una Chiesa vera vorrebbe certo fare tutto questo, ma una Chiesa vera può fare di più. Può fare di questi tempi di oscurantismo qualcosa di più di un tempo di semina; può farli il vero opposto dell’oscurità. Può presentare i suoi ideali in tale e attraente e improvviso contrasto con l’inumano declivio del tempo da ispirare d’un tratto agli uomini qualcuna delle rivoluzioni morali della storia, così che gli uomini oggi viventi non siano toccati dalla morte finché non abbiano visto il ritorno della giustizia. Non abbiamo bisogno, come dicono i giornali, di una Chiesa che si muova col mondo. Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo”. Un apologeta, dunque, un cristiano che brandiva la penna come una spada, certamente, ma anche con uno stile prodigioso e con una umanità commovente, che è riassunta in queste sue parole: “È assolutamente necessario essere un uomo buono: avere il senso dell’amicizia e dell’onore e una tenerezza profonda. Soprattutto è necessario essere apertamente e indecorosamente umani, confessare appieno tutte le pietà e le paure primordiali di Adamo”.

Paolo Gulisano

Bibliografia

Chesterton G.K., Autobiografia Piemme.
Chesterton G.K., Come si scrive un giallo, Sellerio.
Chesterton G.K., Dieci detective, Guanda.
Chesterton G.K., Eretici, Piemme.
Chesterton G.K., I paradossi di mr. Pond, Vallardi A.
Chesterton G.K., I racconti di padre Brown San Paolo Edizioni.
Chesterton G.K., Il bello del brutto, Sellerio.
Chesterton G.K., Il club dei mestieri stravaganti Newton & Compton.
Chesterton G.K., Il Napoleone di Notting Hill, Piemme.
Chesterton G.K., Il pugnale alato e altri racconti, BUR, Biblioteca Universali Rizzoli.
Chesterton G.K., L’osteria volante, Piemme.
Chesterton G.K., La resurrezione di Roma, IPL.
Chesterton G.K., La saggezza di padre Brown, Piemme.
Chesterton G.K., La sfera e la croce, Piemme.
Chesterton G.K., Le avventure di un uomo vivo, De Agostini.
Chesterton G.K., L’uomo che fu giovedì, Nord.
Chesterton G.K., Ortodossia, Morcelliana.
Chesterton G.K., Perché sono cattolico (e altri scritti) Gribaudi.
Chesterton G.K., S. Tommaso d’Aquino, Piemme.
Chesterton G.K., Svelare il mistero Gribaudi.
Chesterton G.K., Trevisan F., Il pazzo e il re, Fede & Cultura.
Gulisano P., Chesterton e Belloc. Apologia e profezia, Ancora editrice.

Nessun commento:

Posta un commento