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lunedì 13 novembre 2006

IN RICORDO DI CHESTERTON

dal FOGLIO DEL 14/06/2006:

In ricordo di Chesterton a 70 anni dalla morte – (sul Foglio 14/06/2006)
Settant’anni fa, il 14 giugno 1936, moriva Gilbert Keith Chesterton, giornalista, scrittore, umorista, critico d’arte inglese convertitosi al cristianesimo in età adulta per – si può dirlo tranquillamente senza timore di offenderne la memoria – sfuggire alla noia. Tutta la riflessione di questo geniale pensatore inglese si è sviluppata infatti attorno al rapporto noia-gioia, come ha sottolineato uno dei suoi lettori più acuti, l’argentino Jorge Luis Borges: “Chesterton visse nel corso degli anni intrisi di malinconia a cui si riferisce con la definizione fin de siecle. Da questo ineliminabile tedio venne salvato da Whitman e da Stevenson […] Avrebbe potuto essere Kafka e Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità”. Trovatosi sul baratro della vita, Chesterton ormai adulto (la conversione ufficiale avviene nel 1922) si rende conto di quello che dopo di lui e sulle sue tracce sperimentò un altro grande convertito inglese, Clive Staples Lewis e cioè che, innanzitutto, “i cristiani hanno torto ma gli altri sono così noiosi!”.
Questo è il primo passo verso la conversione: scoprire l’avventurosa bellezza della fede religiosa, il tremendo brivido dell’Essere rispetto a quello disperante del Nulla. Pieno di entusiasmo per la scoperta, Chesterton si tuffa, con la golosità di un bambino, nella fede cattolica che, continua Borges, “secondo lui, è basata sul buon senso. Arguì che la stranezza di tale fede si attaglia alla stranezza dell’universo, come la strana forma di una chiave si adatta perfettamente alla strana forma di una serratura. In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo a un mero propagandista cattolico. Innegalmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta”.
Questo grande poeta è oggi, anche in Italia quasi del tutto sconosciuto. E’ appena uscito, ripubblicato dalla Morcelliana ottanta anni dopo la prima edizione, il suo capolavoro “Ortodossia”, che si chiude con una memorabile pagina sulla gioia, definito “il gigantesco segreto del cristiano”; ma, viene spontaneo chiedersi, quale frequentatore di librerie scoprirà l’esistenza di questo piccolo gioiello?
Un lettore che ha scoperto e fatto tesoro della riflessione chestertoniana è stato Joseph Ratzinger. Anche questo primo anno di pontificato di Benedetto XVI può essere facilmente letto e agevolmente compreso alla luce della dicotomia noia-gioia sin dal primo discorso: “Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande […] non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo”.
La monotonia dell’eresia
Benedetto XVI, come Chesterton, ha scoperto la forza benefica del paradosso e di continuo la sua voce si è alzata per provocare, stimolare e incalzare l’uomo contemporaneo distogliendolo dalle sue pigrizie mentali. Per esempio quando ha invitato i non credenti a vivere “come se Dio esistesse”, parole da brivido sulla bocca di un pontefice. Come quando sulle montagne della Val d’Aosta ha affermato la “fallibilità” del Papa. Oppure quando, parlando ai giovani polacchi il 27 maggio scorso, li ha esortati dicendo: “Non abbiate paura di essere saggi, cioè non abbiate paura di costruire sulla roccia!”. Qui è fortissimo l’eco di Chesterton che in Ortodossia afferma: “Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è invece niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza e l’essere saggi è più drammatico che l’essere pazzi. La chiesa non scelse mai le strade battute, ne accettò i luoghi comuni, non fu mai rispettabile. E’ facile essere pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa; è sempre facile essere modernisti, come è facile essere snob”. In queste battuta in effetti è racchiuso molto del significato del pontificato di Benedetto XVI, un Papa che sa che la chiesa non è mai (né può essere mai) “rispettabile”.
Alle sabbie mobili del relativismo e del nichilismo egli contrappone la chiesa fondata sulla roccia di Pietro. E qui c’è un altro paradosso, quello dell’umiltà, la più controversa delle virtù, che, come ricordava Mario Soldati quando la si ha, si crede di non averla, e come uno pensa di averla, la perde. La roccia su cui è fondata la chiesa di Cristo, Pietro di Galilea, cioè Benedetto XVI, è una roccia molto fragile. E’ proprio Benedetto XVI a dirlo nelle ultime catechesi pubbliche del mercoledì, tutte incentrate sulla figura dell’apostolo Pietro. In particolare in quella del 24 maggio ha osservato: “La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere niente! Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione”. Il Papa è “niente”. Parola di pontefice.
Il filo paradossale su cui si muove il pontefice-pensatore nel compiere la sua missione, è sottile e inquietante. Solo chi vuole stare al caldo delle sue sicurezze può non farsi inquietare, solo chi non vuole vedere e ascoltare, può ancora fantasticare della “chiesa-corazzata”, chiusa nella sua intolleranza non dialogante, che si muoverebbe verso nuove terre di conquista con la forza e sotto la sferza del Papa-panzer. Non c’è, invece, Papa più dialogante di questo piccolo uomo tedesco (come sa bene anche il suo amico Hans Kung, per ventisette anni mai ricevuto da Wojtyla e subito accolto da Ratzinger) che avverte con tremore la profondità del Mysterium Ecclesiae, quel mistero espresso efficacemente dall’ennesimo paradosso dell’inglese Chesterton: “Quando, in un momento simbolico, stava ponendo le basi della sua grande società, Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codardo: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edificato la sua chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno prevalso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole”.
Andrea Monda

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