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giovedì 23 novembre 2006

Banfi, i tolleranti oscuratori e CulturaCattolica

La vicenda di Banfi e culturacattolica.it

L'amico Alfredo Errico di CulturaCattolica ci informa che il sito è per ora migrato limitatamente e temporalmente su http://www.culturacattolica.ilcannocchiale.it/ ove potete trovare anche i commenti finora giunti.

Continuiamo a sostenere questi amici, anzi facciamo insieme questa piccola battaglia. E' in queste scaramucce quotidiane che si gioca la nostra vita. Non credo che verremo chiamati ad una nuova Lepanto, ma la nostra Lepanto è quotidiana...

L'Uomo Vivo

il Nostro Gilbert beato?


Dall'Avvenire di Sabato 18 Novembre 2006
Noi abbiamo non abbiamo mai avuto dubbi...
Anche la Società Chestertoniana Italiana intende fare un passo simile a quello dell'Americana.
Pearce sta effettuando una sorta di tournee in Italia. La Società in particolare è orgogliosa di comunicare di essere coorganizzatrice dell'incontro di Torino, che si svolgerà martedì 28 Novembre 2006 alle ore 21.00 a cura degli amici del Centro Culturale Pier Giorgio Frassati.

IL CASO
Chiesto al vescovo di Northampton, in Gran Bretagna, di avviare un'indagine sulle virtù cristiane dello scrittore

Chesterton beato?

Parla Joseph Pearce, biografo di G.K.C.: «Odiò le eresie, ma amò gli eretici» «I suoi libri sono continuamente ripubblicati. È in atto un revival della sua produzione, soprattutto religiosa»

Di Lorenzo Fazzini

Chissà che un giorno anche i giallisti non abbiano anch'essi un santo protettore in Cielo. Già, perché c'è chi si augura che uno dei più grandi scrittori di romanzi investigativi possa essere elevato agli onori degli altari. E non per meriti letterari, naturalmente, ma per la sua testimonianza di fede e vita cristiana: infatti, per alcuni suoi ammiratori Gilbert Keith Chesterton - di cui quest'anno ricorrono i 60 anni dalla morte - è fortemente indiziato di santità. Tanto che Dale Ahlquist, presidente dell'American Society a lui dedicata, con sede a Minneapolis, si è già attivato presso il vescovo di Northampton, in Gran Bretagna, per avviare un'indagine preliminare per accertare la pratica delle virtù cristiane del creatore di padre Brown. Della santità di G.K.C. - come il prolifico scrittore e polemista si firmava sui quotidiani del tempo - non ha dubbi Joseph Pearce, uno dei maggiori conoscitori di Chesterton: «Credo che lui sia davvero in Paradiso e sarei oltremodo contento che una causa di beatificazione per lui avesse buon esito». Pearce è autore di una sontuosa monografia sull'autore di Un uomo chiamato Giovedì, intitolata Wisdom and Innocence, edita nel 1996, considerata da Aidan Mackey, dell'autorevole Chesterton Study Centre, «la più bella biografia» dedicata all'autore londinese da quando, nel 1944, venne pubblicato il lavoro di Maisie Ward. E di G.K.C. Pearce esalta non solo il profondo cattolicesimo di cui sono intrise le sue prove narrative o apologetiche, bensì un particolare tratto esistenziale: «Nella sua vita ha incarnato il comandamento del Signore di amare non solo i nostri vicini, ma anche i nostri nemici. Chesterton spese tutta la sua vita discutendo con i suoi "avversari" culturali, come H. G. Wells e George Bernard Shaw, ma senza diventare nemico di nessuno: con loro si confrontò sempre, ma non litigò mai. Anzi, proprio questi due intellettuali lo considerarono sempre un amico particolarmente apprezzato».
In pr atica, annota Pearce, nelle quotidiane battaglie tutte culturali che ingaggiò con Shaw, Wells e compagni, il baffuto scrittore esercitò ante litteram quella prassi che sarebbe stata così esplicitata da papa Giovanni XIII: «Condannare il peccato ma amare il peccatore». «Chesterton lo fece da vero santo», argomenta Pearce, «odiando l'eresia ma amando l'eretico. Per me egli è un esempio di santità, che cerco di imitare nella mia vita di ogni giorno». Del resto, fu proprio l'autore di Ortodossia a colpire il ventenne Pearce, allora neofascista e antipapista incallito, incarcerato per ben due volte per i suoi articoli in qualità di appartenente al movimento di estrema destra British National Front. «Mi innamorai della personalità e dello spirito di Chesterton» riconosce Pearce, oggi docente all'Ave Maria University di Naples, Florida. E da lui fu idealmente condotto ad abbracciare la fede cattolica, nel 1989: «Mi guarì in dieci anni grazie alla sua filosofia della gratitudine».
Ma anche da un punto di vista culturale l'opera e il pensiero del giallista che influenzò J.R.R. Tolkien, Evelin Waugh e C.S. Lewis, sostiene Pearce, sono da riprendere in mano: «I romanzi di Chesterton mantengono ancor oggi tutta la loro attualità rispetto alla cultura odierna. In racconti come L'uomo che si chiamava Giovedì e La sfera e la croce rivaluta l'importanza della filosofia e della teologia e, al tempo stesso, espone le conseguenze distruttive del relativismo, in tutte le forme in cui esso si presenti. In Il Napoleone di Notting Hill affronta il tema del Grande Governo e loda, per contro, il patriottismo e l'amministrazione locale. Non è un'esagerazione vedere questo libro come la parabola dei pericoli del laicismo dittatoriale di istituzioni quali l'Unione europea». Vi è una nota profetica che riguarda anche il sorgente fondamentalismo islamico: «Nel romanzo L'osteria volante c'è un'allusione al pericolo dell'influenza musulman a sulla cultura occidentale, mentre nella sua ballata Lepanto vi è un avvertimento sui pericoli dell'islamismo militante».
Del resto, secondo Pearce, la produzione di Chesterton sta godendo in questi ultimi anni una riscoperta notevole: «L'American Society a lui intitolata è quanto mai dinamica e l'annuale conferenza che essa organizza rappresenta uno dei più grandi ed appassionanti eventi letterari dedicati ad un singolo autore che ci siano al mondo. Vi è anche una serie televisiva consacrata ai personaggi di Chesterton, mentre le sue opere vengono continuamente pubblicati in nuove edizioni, ricevendo un'attenzione sempre maggiore da parte dei media. Si può dire che oggi G.K.C. sia letto più di ogni altro periodo da 70 anni in qua».
In particolare, annota lo studioso inglese, è soprattutto la produzione religiosa di Chesterton ad essere indagata più in profondità: «Ortodossia e L'uomo eterno, così come le sue stupende biografie di San Tommaso d'Aquino e San Francesco, vengono studiate con sempre maggior frequenza; anche tra i teologi e i filosofi si assiste ad un certo revival di interesse sulla sua opera. Si potrebbe quasi dire che Chesterton è risorto dai morti».

mercoledì 22 novembre 2006

Banfi e l'intolleranza dei cosiddetti tolleranti... (fantastici, non si smentiscono mai!)

Il responsabile del sito www.culturacattolica.it, di cui condividiamo il lavoro e a cui collabora la cara amica chestertoniana Nerella Buggio, ci ha mandato questo comunicato sulla fiction di Lino Banfi (mi spiace tantissimo che si sia prestato all'operazione, mi è molto simpatico), che ha scatenato una guerra attorno al sito di culturacattolica.it.
Ne condividiamo il contenuto e esprimiamo solidarietà e partecipazione diffondendo il comunicato e invitando chi legge a fare altrettanto.
Agli oscuratori del sito: vi si è oscurato il cervello, accendete la Luce...
A Nerella: molti nemici...

Società Chestertoniana Italiana

Mi permetto di scrivervi (sono il responsabile del sito
www.culturacattolica.it) per farvi conoscere quanto ci sta accadendo
in questi momenti: la nostra collaboratrice Nerella Buggio ha fatto un
articolo sulla fiction di Lino Banfi, chiedendo, tra altre
considerazioni, di spostare il programma in seconda serata. La
Repubblica ha messo la notizia in prima pagina sul suo sito web,
dicendo che «i cattolici della rete contro Banfi» chiedono di
«oscurare la fiction omosessuale».

L´esito di questo è stato un attacco verbale e informatico contro il
nostro sito, per cui ora non è più visibile, nonostante i tentativi
dei responsabili del servizio di riparare la situazione. Abbiamo anche
preparato un comunicato stampa che invio.

Grazie della vostra cortese attenzione.

P.S.: vi copio qui sotto l´articolo della bagarre perché - a meno di
risoluzione del problema - non lo potrete trovare sul sito «oscurato».

Nonno Libero diventa "il padre delle spose"
Lino Banfi, interprete di Nonno Libero, nella fiction televisiva "un medico in famiglia", ci ha
lentamente abituati con la sua aria sorniona, alle famiglie "aperte e
allegre", dove regna l´allegria, la mancanza della mamma è surrogata
da nonni e tate premurose, dove il padre si sposa la zia e insieme
spariscono per lunghi mesi, lasciando la famiglia nelle mani di questo
instancabile nonno, che denigra la scuola libera, inneggia al
sindacato come risolutore di tutti i mali e si sposa la consuocera
borghese per redimerla.

Ora nonno Libero, si lancia in un´altra operazione di "marketing
culturale", con la prossima fiction in onda su RAI UNO, il 20
novembre, in prima serata, dal titolo "Il padre delle spose", racconta
la storia di un padre, pugliese, vedovo, che dopo molti anni che non
vede la figlia che vive in Spagna, decide di andare a Barcellona a
trovarla e la trova, sposata con un´altra donna.

Dopo il rifiuto iniziale del padre tradizionalista, gli autori
garantiscono il lieto fine, ci mancherebbe altro, del resto sempre di
un matrimonio si tratta, o no?

No.

Due donne sono una coppia che vive insieme, non basta che una legge
dica che anche se dello stesso sesso possono dirsi "sposate", il
matrimonio è un´altra cosa, spiacente, ma le parole hanno un peso e
gli impegni che si prendono sono differenti.

Lo so, le accuse di razzismo e di grettezza mentale, sono assicurate,
persino un vecchio patriarca pugliese si arrende e finisce per
accogliere le due donne come figlie e voi vorrete protestare?

Beh, io sì. Una cosa è accogliere la figlia lesbica e un´altra è dire
che il matrimonio tra due omosessuali e due eterosessuali è la
medesima cosa.

Io voglio protestare, perché questo continuo far passare in
televisione l´idea, che tutte le unioni possono essere equiparate, è
una forzatura innaturale.

Non sospenderanno certo la fiction per le nostre proteste, ma far
sentire la nostra voce, chiedere lo spostamento in seconda serata e
magari disdire il canone RAI potrebbe essere utile.

giovedì 16 novembre 2006

Illustrissimi...


Chesterton e Albino Luciani

Il compianto Papa Giovanni Paolo I scrisse un volumetto di lettere immaginarie a personaggi famosi. Una la dedicò al nostro Gilbert. Per gentile concessione dell'editrice Messaggero di Padova eccone il testo.
Merita.

A Gilbert K. Chesterton

In che razza di mondo...


Caro Chesterton,

sul video della televisione italiana è apparso nei passati mesi Padre Brown, imprevedibile prete-poliziotto, creatura tipicamente tua. Peccato che non siano anche apparsi il professor Lucifero e il monaco Michele. Li avrei visti volentieri, come tu li hai descritti ne "La sfera e la croce", viaggianti in aeroplano, seduti l'uno di fronte all'altro, Quaresima davanti a Carnevale.
Quando l'aereo è sopra la cattedrale di Londra, il professore scaglia una bestemmia all'indirizzo della Croce.
- Sto pensando se questa bestemmia ti giovi - gli dice il monaco. - Senti questa storia: io ho conosciuto un uomo come te; anche lui odiava il crocifisso; lo bandì da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri; diceva che era brutto, simbolo di barbarie, contrario alla gioia e alla vita. Diventò più furioso ancora: un giorno s'arrampicò sul campanile di una chiesa, ne strappò la croce e la scagliò dall'alto.
Andò a finire che questo odio si trasformò in delirio prima e poi in furiosa pazzia. Una sera d'estate s'era fermato, fumando la pipa, davanti ad una lunghissima palizzata; non brillava una luce, non si muoveva una foglia, ma egli credette di vedere la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci, legate l'una all'altra su per la collina, giù per la valle. Allora, roteando il bastone, mosse contro la palizzata, come contro una schiera di nemici; per quanto era lunga la strada, strappò, spezzò, sradicò tutti i pali che incontrava. Odiava la croce ed ogni palo era per lui una croce. Arrivato a casa, continuò a veder croci dappertutto, pestò i mobili, appiccò il fuoco e l'indomani lo trovano cadavere nel fiume.
A questo punto, il professore Lucifero guarda il vecchio monaco mordendosi le labbra e dice: "Questa storia te la sei inventata!". "Sì, risponde Michele, l'ho inventata adesso; ma essa esprime bene quello che state facendo tu ed i tuoi amici increduli. Voi cominciate con lo spezzare la croce e finite col distruggere il mondo abitabile.
La conclusione del monaco, che è poi la tua, caro Chesterton, è giusta. Togliete Dio, cosa resta, cosa diventano gli uomini? in che razza di mondo ci riduciamo a vivere? - Ma è il mondo del progresso, sento dire, il mondo del benessere! - Sì, ma questo famoso progresso non è tutto quel che si sperava: esso porta con sé anche i missili, le armi batteriologiche e atomiche, l'attuale processo di inquinamento, tutte cose che - se non si provvede in tempo - minacciano di portare l'umanità intera a una catastrofe.
In altre parole il progresso con uomini che si amino, ritenendosi fratelli e figli dell'unico Padre Dio, può essere una cosa magnifica. Il progresso con uomini che non riconoscono in Dio un unico Padre, diventa un pericolo continuo: senza un parallelo processo morale, interiore e personale, esso - quel progresso - sviluppa, infatti, i più selvaggi fondacci dell’uomo, fa di lui una macchina posseduta da macchine, un numero maneggiatore di numeri, “un barbaro in delirio - direbbe Papini - che invece della clava può servirsi delle immense forze della natura e della meccanica per soddisfare i suoi istinti predaci, distruttori ed orgiastici”.
Lo so: molti pensano a rovescio di te e di me. Pensano che la Religione sia un sogno consolatore: l’avrebbero inventata gli oppressi, immaginando un altro mondo inesistente, dove trovare più tardi ciò che oggi rubano loro gli oppressori; l’avrebbero organizzata, tutta a loro favore, gli oppressori, per tenere ancora sottom i piedi gli oppressi e addormentare in essi quell’istinto di classe, che, senza la Religione, li spingerebbe alla lotta.
Inutile ricordare che proprio la Religione cristiana ha favorito il risveglio della coscienza proletaria, esaltando i poveri e annunciando una giustizia futura. - Sì, rispondono, il Cristianesimo risveglia la coscienza dei poveri, ma poi la paralizza, predicando la pazienza e sostituendo alla lotta classista la fiducia in Dio e le riforme graduali della società!
Molti pensano anche che Dio e la Religione. incanalando speranze e sforzi verso un paradiso futuro e lontano, alienino l’uomo, lo distolgano dall’impegnarsi per un paradiso vicino, da realizzare qui in terra.
Inutile ricordar loro che, secondo il recente Concilio, un cristiano, proprio perché cristiano, deve sentirsi più che mai impegnato nel favorire un progresso, che è bene per tutti e una promozione sociale, che sia di tutti. - Resta, dicono, che voi pensate al progresso per un mondo transitorio, in attesa di un paradiso definitivo, che non verrà. Noi, il paradiso lo vogliamo qui, sbocco di tutte le nostre lotte. Di esso già intravediamo il sorgere, mentre il vostro Dio dai teologi della secolarizzazione viene chiamato “morto”. Noi siamo con Heine, che scrisse: “Senti la campanella? In ginocchio! Portano gli ultimi sacramenti a Dio che muore”!
Caro Chesterton, tu ed io ci mettiamo bensì in ginocchio, ma davanti a un Dio più attuale che mai. Lui solo, infatti, può dare una risposta soddisfacente a questi tre problemi, che sono per tutti i più importanti: - Chi sono io? Donde vengo? Dove vado?
Quanto al paradiso, che si godrà sulla terra e sulla terra soltanto, e in un futuro prossimo a conclusione delle famose “lotte”, vorrei fosse sentito uno che è più bravo di me e - senza offuscare i tuoi meriti - anche di te: Dostoevskij.
Tu ricordi il dostoevskijano Ivan Karamazov. E’ un ateo, pur amico del diavolo. Ebbene, egli protesta, con tutta la sua veemenza di ateo, contro un paradiso ottenuto mercé gli sforzi, le fatiche, i patimenti, il martirio d’innumerevoli generazioni. I nostri posteri felici grazie all’infelicità dei loro antecessori! Questi antecessori che “lottano” senza ricevere il loro acconto di gioia, senza, spesso, neppure il conforto d’intravedere il paradiso uscito dall’inferno che attraversano! Sterminate moltitudini di piagati, di sacrificati che sono, semplicemente, il terriccio che serve a far crescere i futuri albero della vita! E’ impossibile!, dice Ivan, sarebbe un’ingiustizia spietata e mostruosa.
Ed ha ragione.
Il senso di giustizia che è in ogni uomo, di qualunque fede, esige che il bene fatto, il male sofferto siano premiati, che la fame di vita in tutti insita sia soddisfatta. Dove e come, se non in un’altra vita? E da chi se non da Dio? E da quale Dio, se non da quello, di cui Francesco di Sales scriveva: “Non temete punto Dio, che non vuole farvi del male, ma amatelo molto, perché vi vuol fare molto bene”?
Quello che molti combattono non è il vero Dio, ma la falsa idea che di Dio si sono fatta: un Dio che protegga i ricchi, che solo chieda e pretenda, che sia invidioso del nostro avanzamento nel benessere, che dall’altro spii continuamente i nostri peccati per procurarsi il piacere di castigarli!
Caro Chesterton, tu lo sai, Dio non è così: ma giusto e buono insieme; padre anche dei figli prodighi, che vuole non meschini e miseri, ma grandi, liberi, creatori del proprio destino. Il nostro Dio è talmente poco rivale dell’uomo che l’ha voluto suo amico, chiamandolo a partecipare alla propria natura divina e alla propria eterna felicità. E non è vero che Egli pretenda da noi esageratamente: si contenta invece di poco, perché sa bene che non abbiamo molto.
Caro Chesterton, io sono convinto con te: questo Dio si farà conoscere e amare sempre più, da tutti, compresi coloro che oggi lo respingono non perché siano cattivi (forse sono buoni più di noi due!), ma perché lo guardano da un punto di vista sbagliato! Essi continuano a non credere in Lui? E Lui risponde: - Sono ben io che credo in voi!
Giugno 1971

(tratto da Albino Luciani, Illustrissimi, Edizioni Messaggero Padova, 1978,
pubblicato per gentile concessione della Casa Editrice)

Su Hilaire Belloc, finalmente



Proponiamo un articolo da G.K.C.'S, periodico della nostra Società Chestertoniana Italiana, a firma del presidente Marco Sermarini sul grande alter ego di Chesterton, Hilaire Belloc, per colmare una grave lacuna nel web e nel panorama culturale italiano.

HILAIRE BELLOC,

AL SERVIZIO DELLA VERITA’
E DELL’AMICIZIA CRISTIANA
= brevi note biografiche =

Una figura purtroppo misconosciuta in Italia, ancor più dimenticata del suo caro, inseparabile, quasi alter ego, amico Gilbert Keith Chesterton. Gli ha reso giustizia l’amico benemerito Paolo Gulisano, ritraendolo dalle nebbie dell’oblio con il volume “Chesterton e Belloc. Apologia e profezia” edito dall’Ancora (onore al merito dell’autore e dell’editrice, in un tempo in cui il “rosa stupid shocking” va più forte delle cose sane). Peraltro aveva avuto un minimo di notorietà all’inizio del XX secolo quando il grande Emilio Cecchi gli chiese di collaborare con La Ronda. Di lui in Italia ha parlato con un bellissimo saggio il già nominato Emilio Cecchi, nel suo Scrittori Inglesi e Americani.
Eppure senza di lui non sarebbe esistito Chesterton, questo Chesterton, o forse il caro amico sarebbe sprofondato nelle fumisterie e nello strano fine a sé stesso. Gilbert gli fu debitore per tutta la vita. Forse uno dei primi baluginii della sua fede cattolica lo intravide negli occhi di quest’uomo solido come una roccia, più simile nell’aspetto ad un semplice contadino inglese che ad un sottile intellettuale (perché tale fu Hilaire).
Figlio di Louis Belloc, un avvocato francese, Hilaire Joseph Pierre Belloc nascque a La Celle, Saint-Cloud, vicino Parigi nel 1870. Sua madre era Elizabeth Rayner Parkes, figlia del radicale di Birmingham Joseph Parkes e nipote di Joseph Priestley. Sebbene converitita dal protestantesimo unitariano al cattolicesimo, rimase sempre una radicale e fu una forte sostenitrice dei diritti delle donne. I Belloc si trasferirono in Inghilterra quando Hilaire aveva due anni. Dopo essere stato educato nella scuola degli Padri Oratoriani a Birmingham (per intenderci l’oratorio del Cardinale John Henry Newman, il pastore anglicano convertitosi al cattolicesimo e divenuto cardinale di Santa Romana Chiesa per volontà di papa Leone XIII; il cardinale lume della piccola schiera di convertiti inglesi al cattolicesimo a cavallo di ‘800 e ‘900) si arruolò nell’Esercito Francese. Tornò in Inghilterra nel 1892 e si iscrisse al Balliol College di Oxford dove studiò storia. Si laureò nel 1895 col massimo dei voti, ma si dispiacque per via del fatto che non gli fu offerto un posto in università. Questo fu un cruccio che gli rimase per tutta la vita. Persuaso che la sua esclusione dipendesse dal suo credo cattolico, parti per gli Stati Uniti per un ciclo di conferenze. Belloc era un uomo dalla forte personalità, solido e deciso nelle sue scelte. Mezzo francese e cattolico intero, disse Emilio Cecchi. “Fisicamente, con una corazza sul petto, si potrebbe scambiarlo per il più agguerrito centurione d’Augusto. Con un cencio rosso sulle spalle tutti lo piglierebbero per il cardinale più giovane ma più in voce d’essere fatto papa. Vestito borghesemente di scuro, tarchiato, autoritario, sembra solo Hilaire Belloc; ch’è quanto dire, come stimava Rupert Brooke, il più forte prosatore inglese tra i viventi...”1 . Chesterton dice che, pur con il cognome francese, aveva il classico aspetto del John Bull, il personaggio o meglio la quintessenza, l’idea fisica dell’inglese vero; egli racconta nell’Autobiografia (nella quale dedica al suo compagno un intero capitolo intitolato significativamente appunto “Ritratto di un amico”) un curioso aneddoto, secondo il quale un barista ad Horsham, quando una volta Chesterton accennò all’amico anche a lui noto (evidentemente frequentavano l’osteria assieme...!) ma quella volta assente, disse (precisa Chesterton che “evidentemente non aveva mai sentito parlare di libri o di simili sciocchezze”): “Lavora un po’ la terra, vero?” e Chesterton subito aggiunge per il lettori: “ed io pensai quanto adulato sarebbe rimasto Belloc per questa osservazione”2
Nel 1896 si sposa con Elodie Hogan, una giovane donna americana di origini irlandesi, che conoscerà in Inghilterra al ritorno della donna da un pellegrinaggio a Roma. L’interesse di Hilaire per questa donna sarà tale che lo spingerà a ricercarla in America, recandovisi con mezzi di fortuna (per la precisione, si dice che Hilaire avesse solamente i soldi per il viaggio in nave all’andata, e che proseguì attraversando l’America, visto che la signorina abitava in California, pagandosi il viaggio tenendo dotte conferenze di storia e letteratura inglese alternate con clamorose partite a carte...). Ricevuto un secco no, visto che la Hogan aveva in animo di farsi monaca di clausura (pensate il poveraccio! aveva attraversato il West praticamente per niente!), riparte per l’Inghilterra. Mesi dopo riceverà una lettera nella quale Elodie diceva che in monastero non l’avevano voluta e quindi... Il matrimonio avvenne in America, e da esso nacquero quattro figli. La povera Elodie morì piuttosto giovane, nel 1914, di malattia, lasciando nella vita di Hilaire un grande dolore e un vuoto pressoché incolmabile. Tanto era l’amore che egli provava per lei. E la vita del nostro Belloc, uomo solidissimo e dalla solidissima fede che pervadeva ogni aspetto della sua vita, fu contristata dalla morte del figlio Louis, partito per la I Guerra Mondiale come membro dei Royal Flying Corps e ucciso durante un bombardamento di una colonna trasportata tedesca nell’Agosto 1918, ufficialmente disperso. Dovette ricordare anche la morte dell’altro figlio Peter nel 1941 durante la II Guerra Mondiale.
Hilaire scriverà il suo primo volume, A Bad Child’s Book of Beasts, nel 1896 e nello stesso anno Verses and Sonnets. Nel 1902 prese la cittadinanza inglese, e scrisse il bellissimo volume The Path to Rome (La strada per Roma), racconto di un suo pellegrinaggio a piedi a Roma, e ne 1906 comprò casa e terreno dalla cosiddetta King’s Land, a Shipley nel Sussex: casa, cinque acri di terra e Slindon Mill. Novecento sterline. Si affezionò moltissimo a questo luogo.
Nello stesso anno si presentò nel Partito Liberale alle elezioni generali. Gli assegnarono un collegio difficilissimo, quello di South Salford, con una decisa presenza di conservatori e pochissimi cattolici. A chi (prete del luogo compreso) gli consigliava nei comizi di tacere la propria origine cattolica, o meglio, il proprio papismo (così i cattolici vengono ancora apostrofati in Inghilterra dai protestanti più radicali...), egli rispose tenendo un famoso discorso che grosso modo esprimeva questi concetti: sono un cattolico romano, vado quanto più posso a messa e quanto più posso faccio la comunione, e recito ogni giorno il Rosario (e dicendo questo mostrò la corona, sventolandola come uno stendardo...). Ecco, se questo per qualcuno di voi è un problema, allora sarà meglio che non mi voti... Dopo un attimo di silenzio imbarazzatissimo e di ghiaccio, partì uno scroscio clamoroso di applausi! Hilaire fu eletto deputato alla Camera dei Comuni. Fu rieletto nel 1910 nello stesso collegio, che perse nello stesso anno a causa di nuove elezioni. Si gettò nuovamente nel giornalismo militante, avendo trovato che la politica non facesse propriamente per lui, ed avendo sviluppato delle posizioni piuttosto critiche nei confronti nel sistema politico inglese, che confluiranno in parte nello storico volume Lo Stato Servile (una delle sue poche opere tradotte in italiano), nel volume The party system (1911) e in numerosi articoli su The Eye Witness e The New Witness, i giornali su cui conduceva le sue battaglie assieme a Cecil Chesterton, fratello di Gilbert, oltre che con lo stesso Gilbert. Fu coinvolto con Cecil (quest’ultimo forse ne pagò il prezzo più alto) nella vicenda giornalistica dello Scandalo Marconi.
Scrisse moltissimo di storia: La rivoluzione francese (1911) e La storia d’Inghilterra (1915) sono due esempi fra i tanti suoi scritti di natura storica. Possiamo dire con certezza che Gilbert ricevette da lui il giudizio storico che profonde in alcune sue opere, anzi imparò proprio da lui.
Nel 1920 scrive L’Europa e la fede (tradotto magistralmente dal nostro Paolo Gulisano ed edito da Il Cerchio di Rimini), bellissimo volume che illustra come le vere radici dell’Europa siano cristiane (libro profetico, se pensiamo alla battaglia che ancora adesso massoni e loro accoliti hanno deciso di fare pur di tacere una delle più chiare evidenze storiche...). Scrive poi una serie di biografie di personaggi storici quali Oliver Cromwell, Giacomo II, Richelieu, Wolsey, Cranmer, Napoleone, Carlo II.
Fu definito da Lord Birkenhead (famoso politico inglese, che tenne il tallone britannico per anni sulla testa degli irlandesi, e morì ammazzato per ordine di Michael Collins) “indubitabilmente un grande oratore” (il che non è poco).
E’ tutto chiaro e null’altro occorre dire circa la sua fede: essa improntava ogni minimo aspetto della sua vita, ogni particolare piccolo o grande, importante o meno. Ogni passo era mosso da essa, sempre nella più grande buona fede e senza timore di sbagliare, gettando il cuore prima di ogni altra cosa dietro qualunque ostacolo.
Una delle caratteristiche salienti della sua vita fu il rapporto stretto con Chesterton, anzi con i Chesterton. Conobbe Gilbert durante la campagna pro-boera (gli inglesi stavano conducendo una guerra imperialista contro il giusto diritto dei contadini boeri dell’attuale Sud Africa di darsi propri stati e proprie istituzioni), avendone apprezzato le doti di polemista e giornalista, oltre che la posizione politica (scusate, ma due inglesi che definiscono ingiusta e imperialista una guerra fatta dal proprio stato nei confronti di un popolo e di istituzioni statali cui loro non appartenevano sono proprio coraggiosi, conoscendo gli inglesi e lo sciovinismo imperialista che li muoveva in quel periodo...). Diventano così amici anzi amicissimi, e Gilbert sente parlare di cattolicesimo per la prima volta da Belloc, col quale andrà a messa la notte di Natale del 1901. Belloc seppe attenderlo sulla soglia della Chiesa per oltre venti anni, vista la conversione di Gilbert del 1922. Un rapporto così stretto che spinse il solitamente poco faceto George Bernard Shaw a definirli come un mostro fantastico, il già nominato Chesterbelloc.
Un sodalizio mai incrinatosi, un’amicizia che condivise gioie e dolori, schiaffi (a volte non solo metaforici, ma anche fisici, come quella volta che li presero durante un loro comizio pro-boero...) e allegre bevute. Un’amicizia cattolica che aspetta suoi emuli in questo tempo in cui è ora di ricominciare a gridare dai tetti che il cattolicesimo è gioia di vivere, è “di più” e non “di meno”, è arguzia e acume e non chiusa ottusità. Migliori esempi di questi due grandi amici credo sia difficile trovarli, maggiore attualità delle loro posizioni di fondo rispetto alla vita, alla politica, al mondo e alle sue sfide credo sia difficile. A noi il compito di seguirne i passi oggi.

Marco Sermarini

mercoledì 15 novembre 2006

L'INTUITO DI UNA SUORA, IL GENIO DI UN RAGAZZINO - La storia del jazzista Lionel Hampton



Proponiamo un bell'articolo di Avvenire del 14 Novembre 2006 che parla di Lionel Hampton, famoso jazzista afroamericano morto qualche anno fa a 94 anni.
"Madre Katharine mi pagò le lezioni di pianoforte"! Potrebbe essere l'inizio di un trattato sull'educazione e sul genio cattolico.
Io da ragazzo, nelle mie peregrinazioni musicali nelle quali cercavo luce e aria per la mia anima, mi sono soffermato numerose volte ad ascoltare questo uomo estremamente vivace e simpatico, ma non sapevo di questa bella storia raccontata recentemente dal card. Egan, arcivescovo di New York.
Leggetela, non potrete rimanere indifferenti, cari amici, se siete ancora uomini.
L'educazione è il presupposto per cui la ragione funziona, quella ragione tanto cara al cattolico Gilbert e a Papa Benedetto XVI.




La storia del jazzista Lionel Hampton
L'intuito di una suora Il genio di un ragazzino
di Marina Corradi


Una mattina di quattro anni fa l'arcivescovo di New York Edward Egan andò in visita nella scuola elementare della parrocchia di Saint Mark a Harlem, in una zona del quartiere abitata da afroamericani e molto povera.

In un salone gremito all'inverosimile da genitori e parenti, finita la recita dei bambini, Egan cerca di guadagnare faticosamente l'uscita. Tra la folla che si accalca per salutarlo c'è un vecchio negro dall'aria sofferente, in carrozzella, che gli allunga la mano, e quando riesce a stringere quella del cardinale lo attira a sé - come uno che debba confidare a bassa voce un segreto.
Infatti all'orecchio dell'arcivescovo il vecchio sussurra con la poca voce che ha in corpo: «Madre Katharine mi pagò le lezioni di pianoforte!» Egan, capendo a stento nella calca ciò che l'uomo gli sta dicendo, non trova di meglio che esclamare: «Come è stata gentile, madre Katharine!». E poi: «E lei, signore, come si chiama?» «Mi chiamo Lionel Hampton», risponde l'anziano invalido.Il cardinale sussulta.

Lionel Hampton, è una leggenda del jazz, uno fra i cinque o sei più grandi nomi del jazz di tutti i tempi. Ed era quell'uomo in carrozzella che gli stava davanti nella scuola di una parrocchia di Harlem in una mattina di primavera del 2002, all'età di novantaquattro anni. Pochi mesi dopo Hampton sarebbe morto, ma da molti è ricordato, oltre che per la sua straordinaria musica, per le centinaia di case costruite per le famiglie povere a New York.
Parrocchiano della chiesa di Saint Mark, a novantaquattro anni, malato, non aveva voluto mancare alla festa dei ragazzini della scuola. Il cardinale Egan ha raccontato l'episodio al convegno sull'educazione svoltosi due giorni fa all'Unesco a Parigi.
Ma, si è chiesto davanti all'auditorio, e quella madre Katharine, che pagò le prime lezioni di pianoforte a un bambino nero, chi era? Era, spiega, madre Katharine Drexel, nata nel 1858, una ricca ereditiera fattasi suora che fondò scuole cattoliche in tutti gli Stati Uniti per educ are i figli dei più poveri, e fu proclamata santa da Giovanni Paolo II.

«Madre Katharine mi pagò le lezioni di pianoforte», racconta a novant'anni un grande artista, e sembra una fiaba. La santa e il genio, lei che lo incontra e lo riconosce quando è solo un bambino orfano di padre, su cui nessuno scommetterebbe una lira.
Ma non è una fiaba, come spiega con serena certezza il cardinale di New York. Semplicemente, la suora che comprese che quel bambino "doveva" prendere lezioni di pianoforte era una vera educatrice.
Una che non aveva solo in mente come dare a quel ragazzo le "competenze" necessarie a dargli un mestiere, ma, avendo intravisto in lui il bagliore di un singolare talento - come la luce ancora offuscata di un diamante grezzo - sapeva di doverlo coltivare.
Chissà, forse qualche saggio avrà detto che quella suora era matta, e che quel bambino aveva più urgente bisogno di imparare un mestiere sicuro. Ma lei, era certa. Forse perché aveva osservato come quel ragazzino guardava le dita di un pianista, durante una festa a scuola.
Forse perché aveva visto come istintivamente quelle mani di bambino si muovevano sulla tastiera - come se Dio, le avesse messe al mondo apposta. Educare, è anche riconoscere, nel seme, la pianta; nel segno, la vocazione.
La santa che riconobbe in un bambino un genio del jazz, è anche la storia dell'antico talento educativo cristiano.

lunedì 13 novembre 2006

THANK YOU MR. MONDA!

A seguire due articoli apparsi sul quotidiano IL FOGLIO che l'autore, il nostro amico Andrea Monda, "true chestertonian" (http://www.asterione.org/pagina.php?pag=monda), ci ha gentilmente concesso di pubblicare...

Grazie infinite Andrea!

La SOCIETA' CHESTERTONIANA ITALIANA

Una risata ci salverà, parola di Benedetto XVI.

dal FOGLIO del 19/08/2006

Tra Chesterton e Huizinga qualche breve nota sull’intervista televisiva di Benedetto XVI

Non c’è argomento più stucchevolmente new age di quello del volo degli angeli e non c’è persona più radicalmente contrapposta a tutte le pseudo-culture che vengono generalmente etichettate con quella sigla di papa Ratzinger, eppure nel chiudere l’intervista televisiva, la seconda dall’inizio del suo pontificato, concessa a un pool di network tedeschi e trasmessa domenica scorsa, il pontefice ha fatto riferimento proprio agli angeli invitando anche gli uomini mortali a librarsi in volo. Alla singolare domanda: “quale ruolo hanno nella vita di un Papa lo humour e la leggerezza dell’essere?”, Benedetto XVI ha infatti risposto: “io non sono un uomo a cui vengano in mente continuamente barzellette. Ma saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante e direi che è anche necessario per il mio ministero. Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo tanta importanza”.
E’ una battuta che merita più di una battuta. Innanzitutto il Papa ha ben presente il fatto che l’umorismo è una cosa molto seria, non è “dire barzellette”. Si tratta invece di “saper vedere”. Nella sua enciclica Deus Caritas est ha affermato che ciò che conta, ciò di cui l’uomo ha sempre bisogno, è “un cuore che vede”. L’umorismo, questa capacità di visione, di rovesciare la prospettiva e cogliere la gioia (e anche il divertimento, dice il Papa) insita nell’esistenza umana, si rivela quindi un metodo, una strada, una saggezza che risulta vitale e “molto importante”, per ogni uomo, anche per il Papa e “il suo ministero”. L’umorismo del resto è, anche etimologicamente, fratello dell’umiltà e tutti e due provengono dall’humus, dalla terra. Solo chi ha i piedi ben piantati per terra, chi riconosce la sua “adamiticità” (Adamo, cioè il “terroso”, secondo la Genesi), può volare alto, fino al cielo. E’ questo il miracolo paradossale dell’umorismo, come spiega Benedetto XVI con la citazione finale (un vero “colpo d’ala” verrebbe da dire) sul volo degli angeli.
Lo scrittore citato è Gilbert Keith Chesterton, geniale scrittore inglese scomparso settanta anni fa e che, quasi a contrastare il diffuso oblio che lo circonda, il Papa di continuo “cita” senza nominare con parole e gesti, allusioni e battute. Più che di citazioni dirette, come quest’ultima sugli angeli e la condanna della seriosità, si tratta di una vera e propria simbiosi, un’identità di vedute, una condivisione di prospettive che rendono superflui i richiami espliciti. Leggerezza e candore sono per esempio due caratteristiche comuni a entrambi, una leggerezza che fa rima con sottigliezza, profondità e acume, e un candore “spudorato”, che spinge per esempio il pontefice a confessare quanto sia faticoso il suo ministero (“ma in ogni caso cerco di trovare anche in questo la gioia”) e, al contrario, quanto lui sia debole di fronte a tale impegno: “Devo dire che io non mi sento molto forte tanto da mettere in agenda ancora molti grandi viaggi...vorrei andare con il “dosaggio” che mi è possibile”. Sia lo scrittore-umorista che il papa-teologo hanno poi ben presente che il mondo moderno non vive una crisi morale quanto piuttosto ha subito un tracollo mentale. E’ la ragione non l’etica ad uscire sconfitta dal XX secolo e proprio per questo motivo, come ha ripetuto davanti alle telecamere tedesche, “credere è diventato più difficile, poiché il mondo in cui ci troviamo è fatto completamente da noi stessi e in esso Dio, per così dire, non compare più direttamente.”. Entrambi concordano sul fatto che un mondo senza Dio non è un mondo di atei illuminati ma di bui creduloni. Lo scriveva Chesterton nel suo saggio Eretici del 1905, lo ripete un secolo dopo il Papa, estendendo il discorso alla questione islamica: “Dall’altra parte l’Occidente viene toccato fortemente da altre culture in cui l’elemento religioso originario è molto forte, e che sono inorridite per la freddezza che riscontrano in Occidente nei confronti di Dio. E questa presenza del sacro in altre culture, anche se velata in molte maniere, tocca nuovamente il mondo occidentale, tocca noi, che ci troviamo al crocevia di tante culture. E anche nel profondo dell’uomo in Occidente e in Germania sale sempre nuovamente la domanda di qualcosa “di più grande””.
Insomma, per comprendere questo pontificato, accanto all’assolutista Agostino (secondo il neo-teologo Bersani), occorre rileggersi qualche saggio dell’umorista Chesterton, oppure, se proprio si vuole mantenere un’aria di serietà, si potrebbe riprendere in mano un piccolo saggio di Huizinga del 1935, La crisi della civiltà, scritto dal geniale storico olandese in quell’ora drammatica per l’Europa, avendo di fronte l’addensarsi le nubi dell’orrore nazista (Ha questo mondo le sue notti, e non sono poche, questa la citazione di Sam Bernardo posta in epigrafe), orrore che già dieci anni prima del conflitto mondiale rivela la sua natura scientifico-tecnologica e spinge l’autore ad affermare che “La barbarie può associarsi ad un’alta perfezione tecnica […] La divinità supreme dell’epoca nostra, meccanizzazione e organizzazione, ha portato vita e morte. Hanno reso tutto il mondo solidale, hanno stabilito dei contatti dappertutto, creato dappertutto la possibilità della collaborazione, della concentrazione di forze, della comprensione reciproca. In pari tempo hanno portato con sé inceppamento, ristagno, irrigidimento dello spirito preso fra i congegni che ci donavano.” Sono parole di Huizinga ma potrebbero essere del teologo e cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI che alle televisioni tedesche ha ribadito: “Il progresso può essere progresso vero solo se serve alla persona umana e se la persona umana stessa cresce; se non cresce solo il suo potere tecnico, ma anche la sua capacità morale. E penso che il vero problema della nostra situazione storica sia lo squilibrio fra la crescita incredibilmente rapida del nostro potere tecnico e quello della nostra capacità morale, che non è cresciuto in modo proporzionale”.
Settant’anni fa lo storico olandese si chiedeva: “La natura materiale è schiava delle catene che l’uomo ha foggiato. Che ne è però della vittoria sulla natura spirituale?” e osservava, cupamente, che “Il sintomo più grave è “l’indifferenza alla verità”, riscontrabile dappertutto”. E’ un’indagine lucida e coerente quella di Huizinga che lo conduce alle medesime conclusioni del Papa tedesco: : “Nelle antiche civiltà troviamo un comune ideale: l’onor di Dio – sia pure in diversi modi concepito – la giustizia, la virtù, la sapienza. Lo spirito dell’epoca nostra può darsi dica che questi sono concetti metafisici invecchiati e non bastevolmente definiti. Rinunciando a tali concetti l’unità della cultura è posta in dubbio. Ciò che rimane al suo posto è invero solo una somma di desideri tra loro contrastanti. […] il concetto di cultura si attua solo allorché l’ideale che ne determina l’indirizzo è più elevato degli interessi rivendicati dalla comunità stessa. La cultura deve avere un indirizzo metafisico; altrimenti non esiste”. Ci vuole una formazione del cuore, dice Benedetto XVI, un cuore che sia anche capace di ridere; non a caso il capolavoro di Huizinga è senza dubbio il suo saggio sull’Homo Ludens.
Andrea Monda

IN RICORDO DI CHESTERTON

dal FOGLIO DEL 14/06/2006:

In ricordo di Chesterton a 70 anni dalla morte – (sul Foglio 14/06/2006)
Settant’anni fa, il 14 giugno 1936, moriva Gilbert Keith Chesterton, giornalista, scrittore, umorista, critico d’arte inglese convertitosi al cristianesimo in età adulta per – si può dirlo tranquillamente senza timore di offenderne la memoria – sfuggire alla noia. Tutta la riflessione di questo geniale pensatore inglese si è sviluppata infatti attorno al rapporto noia-gioia, come ha sottolineato uno dei suoi lettori più acuti, l’argentino Jorge Luis Borges: “Chesterton visse nel corso degli anni intrisi di malinconia a cui si riferisce con la definizione fin de siecle. Da questo ineliminabile tedio venne salvato da Whitman e da Stevenson […] Avrebbe potuto essere Kafka e Poe, ma coraggiosamente optò per la felicità”. Trovatosi sul baratro della vita, Chesterton ormai adulto (la conversione ufficiale avviene nel 1922) si rende conto di quello che dopo di lui e sulle sue tracce sperimentò un altro grande convertito inglese, Clive Staples Lewis e cioè che, innanzitutto, “i cristiani hanno torto ma gli altri sono così noiosi!”.
Questo è il primo passo verso la conversione: scoprire l’avventurosa bellezza della fede religiosa, il tremendo brivido dell’Essere rispetto a quello disperante del Nulla. Pieno di entusiasmo per la scoperta, Chesterton si tuffa, con la golosità di un bambino, nella fede cattolica che, continua Borges, “secondo lui, è basata sul buon senso. Arguì che la stranezza di tale fede si attaglia alla stranezza dell’universo, come la strana forma di una chiave si adatta perfettamente alla strana forma di una serratura. In Inghilterra il cattolicesimo di Chesterton ne ha pregiudicato la fama, poiché la gente persiste nel ridurlo a un mero propagandista cattolico. Innegalmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta”.
Questo grande poeta è oggi, anche in Italia quasi del tutto sconosciuto. E’ appena uscito, ripubblicato dalla Morcelliana ottanta anni dopo la prima edizione, il suo capolavoro “Ortodossia”, che si chiude con una memorabile pagina sulla gioia, definito “il gigantesco segreto del cristiano”; ma, viene spontaneo chiedersi, quale frequentatore di librerie scoprirà l’esistenza di questo piccolo gioiello?
Un lettore che ha scoperto e fatto tesoro della riflessione chestertoniana è stato Joseph Ratzinger. Anche questo primo anno di pontificato di Benedetto XVI può essere facilmente letto e agevolmente compreso alla luce della dicotomia noia-gioia sin dal primo discorso: “Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande […] non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo”.
La monotonia dell’eresia
Benedetto XVI, come Chesterton, ha scoperto la forza benefica del paradosso e di continuo la sua voce si è alzata per provocare, stimolare e incalzare l’uomo contemporaneo distogliendolo dalle sue pigrizie mentali. Per esempio quando ha invitato i non credenti a vivere “come se Dio esistesse”, parole da brivido sulla bocca di un pontefice. Come quando sulle montagne della Val d’Aosta ha affermato la “fallibilità” del Papa. Oppure quando, parlando ai giovani polacchi il 27 maggio scorso, li ha esortati dicendo: “Non abbiate paura di essere saggi, cioè non abbiate paura di costruire sulla roccia!”. Qui è fortissimo l’eco di Chesterton che in Ortodossia afferma: “Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è invece niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza e l’essere saggi è più drammatico che l’essere pazzi. La chiesa non scelse mai le strade battute, ne accettò i luoghi comuni, non fu mai rispettabile. E’ facile essere pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa; è sempre facile essere modernisti, come è facile essere snob”. In queste battuta in effetti è racchiuso molto del significato del pontificato di Benedetto XVI, un Papa che sa che la chiesa non è mai (né può essere mai) “rispettabile”.
Alle sabbie mobili del relativismo e del nichilismo egli contrappone la chiesa fondata sulla roccia di Pietro. E qui c’è un altro paradosso, quello dell’umiltà, la più controversa delle virtù, che, come ricordava Mario Soldati quando la si ha, si crede di non averla, e come uno pensa di averla, la perde. La roccia su cui è fondata la chiesa di Cristo, Pietro di Galilea, cioè Benedetto XVI, è una roccia molto fragile. E’ proprio Benedetto XVI a dirlo nelle ultime catechesi pubbliche del mercoledì, tutte incentrate sulla figura dell’apostolo Pietro. In particolare in quella del 24 maggio ha osservato: “La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere niente! Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione”. Il Papa è “niente”. Parola di pontefice.
Il filo paradossale su cui si muove il pontefice-pensatore nel compiere la sua missione, è sottile e inquietante. Solo chi vuole stare al caldo delle sue sicurezze può non farsi inquietare, solo chi non vuole vedere e ascoltare, può ancora fantasticare della “chiesa-corazzata”, chiusa nella sua intolleranza non dialogante, che si muoverebbe verso nuove terre di conquista con la forza e sotto la sferza del Papa-panzer. Non c’è, invece, Papa più dialogante di questo piccolo uomo tedesco (come sa bene anche il suo amico Hans Kung, per ventisette anni mai ricevuto da Wojtyla e subito accolto da Ratzinger) che avverte con tremore la profondità del Mysterium Ecclesiae, quel mistero espresso efficacemente dall’ennesimo paradosso dell’inglese Chesterton: “Quando, in un momento simbolico, stava ponendo le basi della sua grande società, Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codardo: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edificato la sua chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno prevalso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole”.
Andrea Monda

domenica 12 novembre 2006

Chesterton e Giovannino Guareschi 2 - La democrazia dei morti



"Io sono ancora il democratico d'allora. Senza più cimici e pidocchi e pulci; senza più topi che mi camminano sulla faccia, senza più fame, anzi, senza appetito addirittura, e con tanto tabacco, ma sono ancora il democratico di allora, e sul nostro Lager non direi una parola che non fosse approvata da quelli del Lager. Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia".

Giovanni Guareschi, Diario Clandestino

"La tradizione può essere definita, come una estensione del diritto politico. Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. E' la democrazia dei morti. La tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che per caso si trovano ad andare attorno. I democratici respingono l'idea della squalifica per il fatto accidentale della morte. La democrazia ci insegna di non trascurare l'opinione di un saggio, anche se è il nostro servitore, la tradizione ci chiede di non trascurare l'opinione di un saggio, anche se è nostro padre. Io non posso, comunque, separare, le due idee di tradizione e di democrazia: mi sembra evidente che sono una medesima idea. Avremo i morti nei nostri consigli. I Greci antichi votavano con le pietre, essi voteranno con le pietre tombali. Ciò è perfettamente regolare e ufficiale: la maggior parte delle pietre tombali, come delle schede elettorali, sono segnate da una croce"

Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia

martedì 7 novembre 2006

Articoli su Chesterton - 2


Da Tracce n° 6 di Giugno 2003 - Tracce è il mensile del Movimento di Comunione e Liberazione

Chesterton
I paradossi di un inguaribile realista

Laura Cotta Ramosino


Uno sguardo straordinariamente acuto sulla crisi dell’uomo contemporaneo, senza essere però un personaggio lugubre: Gilbert Keith Chesterton, autore di romanzi, racconti, gialli, saggi e biografie di santi, nelle sue opere enuncia le verità semplici e sconcertanti del cristianesimo. Perché la realtà non è altro che il campo d’azione di Dio

È imminente la pubblicazione nella collana de “i libri dello spirito cristiano”, di una raccolta (Il pugnale alato e altri racconti) dello scrittore inglese G.K.Chesterton, noto nel mondo anglosassone semplicemente come GKC, e da noi soprattutto come creatore del celeberrimo prete detective Padre Brown. Uno scrittore dal profilo (anche fisico) enorme, che nasconde, sotto la fama forse un po’ riduttiva di grande giallista, uno sguardo straordinariamente attuale e acuto sulla crisi del mondo contemporaneo, di cui aveva colto i semi già all’inizio del secolo scorso. Chesterton, però, non è un lugubre profeta della crisi; anzi, è senza dubbio un inguaribile ottimista. Ben lontano dal “pensiero positivo” di tanti pseudo-intellettuali, GKC è infatti un ottimista della ragione: la gioia nasce per lui innanzitutto dall’inesauribile meraviglia di esserci. Così scriveva in Ortodossia: «Tutto l’ottimismo di quest’epoca è stato falso e scoraggiante, per questa ragione: che ha sempre cercato di provare che noi siamo fatti per il mondo. L’ottimismo cristiano invece è basato sul fatto che noi non siamo fatti per il mondo».

Verità semplici e dimenticate
Se si dovesse definire Chesterton con una sola figura retorica, questa sarebbe certamente il paradosso: è attraverso una serie di paradossi geniali e sconcertanti, infatti, che Chesterton ci mostra la sua visione della realtà e dell’uomo. Non si tratta del puro gusto di stupire; spesso e volentieri le verità enunciate dai suoi protagonisti sono le più semplici e quotidiane e, proprio per questo, le più facilmente dimenticate. Come quando Innocent Smith, il protagonista de Le avventure di un uomo vivo, dice «la verità è che quando gli uomini sono eccezionalmente alacri e inebriati di libertà e d’ispirazione, devono sempre finire, e finiscono sempre col creare istituzioni. Cadono nell’anarchia quando sono stanchi, ma finché sono allegri e pieni di forza, fissano leggi, invariabilmente».
In questo suo gusto del paradosso Chesterton, comunque, si dimostra profondamente cristiano: non sono forse il dogma della Trinità, o quello della natura divina e umana di Cristo, paradossi che sfidano la ragione umana costringendola ad andare oltre se stessa? Oltre se stessa, ma mai contro se stessa. Perché, come dice Padre Brown, ne La croce azzurra, «attaccare la ragione è cattiva teologia». Infatti, il cristianesimo è per Chesterton un fatto eminentemente razionale: «La difficoltà nello spiegare perché sono cattolico consiste nel fatto che vi sono diecimila ragioni, tutte riconducibili a un’unica ragione: che il cattolicesimo è vero».

La felicità, un luogo fisico
Ne L’uomo che fu Giovedì, forse il suo romanzo più noto, Chesterton immagina che in Inghilterra sia in atto una terribile congiura di anarchici, il cui comitato direttivo è formato da sette uomini, identificati con i giorni della settimana e capeggiati dal misterioso quanto terribile Domenica. Chesterton vede nell’anarchia non il nobile tentativo di creare un mondo nuovo, ma l’espressione dell’ideologia distruttiva di un gruppo di intellettuali impazziti, ben lontani da quel popolo che si vantano di rappresentare. Così il giovane poeta Gabriel Syme si arruola in una speciale polizia anti-anarchica e si infiltra nelle fila dell’organizzazione fino a penetrare nel comitato direttivo, con il nome, appunto, di Giovedì. È in uno dei primi scontri con un suo “collega” anarchico che Syme esprime la sua fiducia nel quotidiano e l’essenza della poesia, in opposizione alle sue derive distruttive: «Lei dice con sprezzo che quando si lascia Sloane Square si arriva alla stazione Victoria: io dico che invece potrebbero capitare centinaia di cose, e tutte le volte che ci arrivo per davvero ho l’impressione di essermela scapolata per un capello. E quando odo il controllore gridare “Victoria!” quella non è una parola priva di significato, per me: è il grido di un araldo che annuncia una conquista; è una “vittoria” vera e propria: è la vittoria di Adamo». Alla fine si scoprirà che il comitato supremo degli anarchici è formato tutto da… poliziotti, dei “giovani asini ben intenzionati”, come li definisce Domenica. In un finale rocambolesco e surreale quella che era iniziata come la caccia al capo supremo dell’anarchia si trasforma in uno straordinario incontro con il mistero della vita: «Il male è troppo grande e non possiamo fare a meno di credere che il bene sia un accidente, ma il bene è tanto grande che sentiamo per certo che il male potrà essere spiegato». E forse tutta la storia (scritta prima della conversione ufficiale di Chesterton al cattolicesimo) non è altro che un’allegoria del discorso di san Paolo all’Areopago: tutta la realtà non è altro che il campo d’azione di quel Dio ignoto, che «… ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché gli uomini lo cercassero, se mai arrivino a trovarlo, andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi». Ma il compimento dell’uomo, aggiunge Chesterton, si trova sempre in un luogo, mai in astratte generalizzazioni: «Uno studio più penetrante delle unità di tempo e di luogo, quali furono delineate per la drammaturgia greca, (…) ci avrebbe indicato perché i poeti, pagani o meno, siano tornati continuamente all’idea della felicità come di un luogo fisico per l’umanità in quanto persona. Ci avrebbe indicato perché il mondo è sempre in cerca di assoluti che non siano astrazioni, perché il paese delle fate era pur sempre un paese e perfino il superuomo era quasi un uomo».

La passione per il giallo
Ma la curiosità per il reale si manifesta in Chesterton soprattutto nella passione per il genere narrativo che doveva dargli la celebrità: il giallo. In una semiseria difesa della letteratura popolare in generale e della detective story in particolare, Chesterton dice, scherzosamente, ma non troppo, che «non solo il giallo è una forma d’arte perfettamente legittima, ma presenta altresì certi vantaggi ben definiti e reali in quanto fattore di pubblico benessere. Il primo valore essenziale del giallo risiede nel fatto che è la prima e unica forma di letteratura popolare in cui si esprime in qualche modo la poesia della vita moderna». Alla base del giallo, quindi, c’è soprattutto l’attenzione alla vita e alle cose che, se attentamente osservate, possono rivelare i loro misteri e segreti. Anzi, secondo Chesterton, un buon giallo può addirittura diventare la chiave di lettura dell’esistenza umana: «Il romanzo avventuroso della polizia rappresenta così l’intera avventura umana, ed è basato sul fatto che la moralità è la più oscura e ardita delle cospirazioni».

Il metodo di Padre Brown
Chesterton ha scritto diversi racconti gialli, ma non c’è dubbio che il suo personaggio più famoso resti il mite e apparentemente ingenuo Padre Brown, il prete cattolico che si serve della sua lunga esperienza in confessionale per indagare la psicologia dei criminali e risolvere i crimini più strani e che, per stessa ammissione di Chesterton, è ispirato alla figura di Padre O’Connor, cui si deve in gran parte la conversione dello scrittore.
Ma qual è il metodo investigativo di Padre Brown? Non certo quello “scientifico” di Sherlock Holmes, ma piuttosto quello di una stupefacente immedesimazione. Ne Il segreto di padre Brown, il piccolo prete confessa a un giornalista che lo sta intervistando di essere lui stesso l’assassino in tutti i delitti di cui si è occupato e poi aggiunge: «Io non ho proprio ucciso quegli uomini materialmente. Intendo dire che ho pensato e ripensato come un uomo possa diventare così, finché non mi resi conto che ero simile a lui, in tutto, eccetto che nella volontà di compiere l’azione finale». E ne Il martello di Dio, che è anche uno straordinario studio della posizione cattolica, protestante e laicista sull’uomo e il peccato, Padre Brown aggiunge umilmente: «Sono un uomo e perciò ho il cuore pieno di diavoli». È proprio da questo riconoscimento del male che è dentro ogni uomo, e non solo nei criminali, che nasce anche la capacità di misericordia che non è mai solamente umana, ma è propria solo del cristiano. E la grandezza di Padre Brown, più ancora che nelle sue doti investigative, sta proprio nella sua inesauribile apertura al bene che può trovarsi anche nel fondo del cuore di un assassino; una genialità ecumenica tutta cattolica, che lo porta a lottare, più ancora che per l’affermazione di un’astratta giustizia, per la salvezza di ogni anima che incroci la sua strada.
STORIA
1874
Gilbert Keith Chesterton nasce a Londra, da una famiglia borghese di confessione anglicana. Dopo i primi studi alla St. Paul School, si iscrive alla Slade School of Art per studiare pittura e passa poi allo University College. Comincia a scrivere sullo Speaker e sul Daily News, affermandosi, grazie alla straordinaria verve polemica, come giornalista e saggista pungente.
Alla redazione del Daily News incontra lo scrittore cattolico Hilaire Belloc, con il quale fonda la Lega distribuzionistica: un movimento politico ed economico che si propone di aiutare lo sviluppo della piccola proprietà e della piccola industria contro i latifondi e grandi trust, ispirandosi al modello di società medioevale e alla dottrina sociale della Chiesa.
1900
Esce la sua prima raccolta di versi, The Wild Knight; seguiranno saggi di critica letteraria e sociale, romanzi e opere teatrali.
1901
Sposa Frances Webb, una poetessa di qualche anno più vecchia di lui. In quegli anni, insieme all’amico Belloc, prende posizione contro la guerra condotta dall’Inghilterra in Sud Africa contro i Boeri.
1908
Pubblica una difesa della fede cristiana intitolata Orthodoxy (Ortodossia).
1922
Si converte alla Chiesa cattolica, cui già da tempo si era avvicinato, grazie all’influenza di Belloc, ma anche di padre John O’Connor. Chesterton scriverà diverse opere di “apologetica”, in cui difende la ragionevolezza della posizione cattolica di fronte alla mentalità contemporanea.
1925
In polemica con H.G. Wells, pubblica The Everlasting Man (L’uomo immortale). Polemizza, ma senza asprezza, anche con G.B. Shaw.
1936
Muore il 14 giugno a Beaconsfield; in quell’occasione papa Pio XI manda un telegramma di cordoglio in cui piange «un devoto figlio della Santa Chiesa, difensore ricco di doni della Fede cattolica». Prima di lui il solo inglese che si era meritato il titolo di “difensore della fede” era stato Enrico VIII.

A proposito di libertà...


Ah, io non posso concepire né tollerare alcuna utopia che non mi lasci la libertà che mi è più cara: la libertà di vincolare me stesso.

Gilbert K. Chesterton, Ortodossia

Articoli su Chesterton


Da Tracce n° 8 del settembre 2005 - Mensile del movimento di Comunione e Liberazione

G.K. Chesterton
Il cristianesimo, una continua avventura
Stratford Caldecott

Uno studioso inglese propone la rilettura del pensiero di Chesterton alla luce dell’incontro con don Giussani. Entrambi vissero la fede come dono

Per alcuni anni mia moglie e io siamo stati soliti frequentare una Scuola di comunità di Boston, ed è stato così che abbiamo conosciuto gli scritti e l’influenza di don Giussani. In seguito ci siamo recati in Italia per gli Esercizi spirituali e siamo stati così fortunati da incontrarlo di persona. Per molti versi gli anni trascorsi nel movimento sono stati formativi per noi. Ci hanno dimostrato che la fede, quando è vissuta, dà origine a una cultura. Ci hanno mostrato come l’attuale sete di esperienza spirituale possa essere soddisfatta all’interno della Chiesa cattolica. Ci hanno introdotto alla teologia di Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar, che ha fornito la chiave per un’autentica interpretazione del Concilio Vaticano II. Grazie all’esperienza del movimento abbiamo sentito il bisogno di un giornale che esprimesse la bellezza della fede e le sue possibilità culturali, e lo abbiamo chiamato Second Spring (Seconda Primavera), da un famoso sermone tenuto da John Henry Newman nel 1852 che profetizzava una rinascita della Chiesa cattolica in Inghilterra.
Ci sono molti grandi scrittori citati da monsignor Giussani nei suoi scritti, e in particolare numerose affinità fra il suo pensiero e quello dei grandi apologeti inglesi seguaci di Newman, come G.K. Chesterton e C.S. Lewis nel XX secolo. Voglio qui soffermarmi sulla presenza di Chesterton negli scritti di Giussani, dal momento che il nostro lavoro sembra ruotare sempre più intorno a G.K. Chesterton. Prolifico e straordinario giornalista, romanziere, poeta e drammaturgo morto nel 1936, Chesterton rappresenta tuttora una grande speranza per la rinascita del cristianesimo, una rinascita proprio nello spirito di Comunione e Liberazione.
Primizia di umanità nuova
A mio avviso, il cuore del libro di Giussani Perché la Chiesa è questo brano: «Chi vive il mistero della comunità ecclesiale riceve un cambiamento della sua natura. […] Questa dovrebbe essere la curiosità dell’avventura cristiana, cioè del nascere e dello stabilirsi nel mondo di questa creaturalità nuova, “primizia” di un’umanità nuova. E non siamo chiamati ad annunciare solo a parole questa rigenerazione, siamo anzi invitati a un’esperienza». Abbiamo udito l’espressione biblica “primizia” così spesso, ma Giussani la rinnova prendendola sul serio. Il brano prosegue: «Immaginare che il cristianesimo possa ridursi ad affermazioni verbali - e una simile immaginazione può colpire chiunque, anche chi si reputa cristiano - significa ritrarsi da quel fascino di un’avventura unica, significa ritrarsi dal cristianesimo come vita» (L.Giussani, Perché la Chiesa, Milano 2003, pp. 240-241).
È la parola “avventura”, più di ogni altra, che avvicina Giussani a Chesterton, il quale sperimentò il cristianesimo nello stesso modo - come un’avventura continua. In un celebre brano tratto dal suo libro Ortodossia, Chesterton scrive di quanto sarebbe stato semplice per i cristiani perdersi in qualunque capriccio ed eresia, dallo gnosticismo alla Christian Science. «Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è invece, niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza, e l’esser saggi è più drammatico che l’esser pazzi; è l’equilibrio di un uomo dietro cavalli che corrono a precipizio, che pare si chini da una parte, si spenzoli da quell’altra, e pure, in ogni atteggiamento, conserva la grazia della statuaria e la precisione dell’aritmetica.

Come un cavallo da guerra
La Chiesa nei primi tempi fu superba e veloce come un cavallo da guerra; ma è assolutamente antistorico dire che essa seguì puramente il dirizzone di un’idea - come un volgare fanatismo. Essa deviò a destra e a sinistra con tanta esattezza da evitare enormi ostacoli; lasciò da un lato la grande mole dell’arianesimo, sostenuta da tutte le forze del mondo che volevano rendere il cristianesimo troppo mondano; un momento dopo doveva scansare l’orientalismo, che l’avrebbe troppo allontanato dal mondo. La Chiesa ortodossa non scelse mai le strade battute, né accettò i luoghi comuni; non fu mai rispettabile. Sarebbe stato facile accettare la potenza terrena degli ariani; sarebbe stato facile, nel calvinistico diciassettesimo secolo, cadere nel pozzo senza fondo della predestinazione. È facile esser pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa; è sempre facile essere modernisti, come è facile essere snob. Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell’errore e dell’eccesso, che, da una moda all’altra, da una setta all’altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del cristianesimo - questo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere; c’è una infinità di angoli a cui si cade, ce n’è uno soltanto con cui si sta ritti. Perdersi in qualunque capriccio, dallo Gnosticismo alla Christian Science, sarebbe stato ovvio e banale. Ma averli evitati tutti è l’avventura che conturba; e nella mia visione il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate, e l’augusta verità oscilla ma resta in piedi» (G.K. Chesterton, Ortodossia, Brescia 1966, pp. 138-139).

Sul palcoscenico trinitario
Chesterton, che come Giussani scrisse molto sul cristianesimo, non commise mai l’errore di ridurre la fede a una questione di “affermazioni verbali”. La fede è un dono, e potremmo perderlo in centinaia di modi se non preghiamo con il cuore, se non viviamo l’avventura. Essere in Cristo significa stare su un palcoscenico trinitario, prendere parte a quello che Von Balthasar ha definito un «teodramma». Troppo facilmente ci sediamo in disparte e osserviamo lo spettacolo da un comodo posto, «ritraendoci dal cristianesimo come vita».
Il senso di avventura, di vita e di fede come un dono continuo del quale dobbiamo essere grati, il senso di immensa riconoscenza per ogni respiro, ogni amico, ogni apparente incontro fortuito, permea la vita e le opere di Chesterton. Lo vediamo, per esempio, nella sua breve biografia di san Francesco d’Assisi, il santo che più si avvicinò a Cristo perché riuscì a sconvolgere il mondo. Verso la fine del libro, Chesterton sembra quasi riassumere la propria spiritualità scrivendo a proposito di san Francesco: «Egli fu soprattutto un gran donatore, che attuò il miglior modo di donare, detto “rendimento di grazie”. Se un altro grand’uomo (cardinale Newman) scrisse una grammatica dell’assenso, di Lui può dirsi benissimo che scrisse una grammatica di accettazione: una grammatica di gratitudine. Poiché comprese in tutta la sua profondità la teoria del ringraziare, e quella profondità è un abisso senza fondo. […] E conobbe ancora che noi possiamo meglio misurare il torreggiante miracolo del semplice fatto della nostra esistenza se riusciamo a constatare che se non fosse per una straordinaria grazia non saremmo esistiti» (G.K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Milano 1977, p. 153).

* Direttore del G.K. Chesterton
Institute for Faith & Culture in Gran Bretagna e dirige il giornale
Second Spring

lunedì 6 novembre 2006

Le opere di Gilbert in rete

Da questo link accederete alla pagina di Martin Ward, contenente i testi delle opere di Chesterton in lingua inglese pubblicati sul web. Il link cliccabile è qui a destra.
Non è male se pensate che il poco pubblicato in italiano è pochissimo ristampato...

http://www.dur.ac.uk/martin.ward/gkc/books/